Nei giorni scorsi, i Carabinieri del Nucleo Ispettorato del Lavoro di Terni, in sinergia con il Comando Provinciale dell’Arma, hanno messo a segno un’operazione capillare di controlli straordinari su esercizi commerciali di varia tipologia, colpendo al cuore uno dei fenomeni più insidiosi per l’economia sana: l’intermediazione illecita e lo sfruttamento dei lavoratori.
Le ispezioni hanno portato alla sospensione immediata di due attività: una rivendita di frutta e ortaggi a Terni, gestita da un cittadino straniero, e un ristorante nel territorio amerino, di proprietà di un cittadino italiano. Dietro la chiusura forzata, una realtà purtroppo ancora diffusa: lavoratori irregolari, senza contratto, senza tutele, esposti a condizioni di sfruttamento che il legislatore italiano combatte da anni ma che ancora oggi resistono come zone d’ombra in troppe filiere produttive.
Nel dettaglio, nella rivendita di frutta e verdura è stato individuato un dipendente completamente irregolare su due presenti. Al titolare sono state contestate sanzioni per circa 4.500 euro. Ancora più pesante l’esito dell’ispezione in un ristorante dell’amerino, dove due dipendenti su quattro sono risultati “in nero”: qui la multa è salita a 9.500 euro.
Non è un caso che, nel solo 2025, la Guardia di Finanza e i Carabinieri abbiano già tracciato un bilancio preoccupante: 88 controlli a tappeto nei settori dell’edilizia, ristorazione, commercio ortofrutticolo, sartorie, eventi e servizi. Dai sopralluoghi sono emersi numeri che raccontano bene l’urgenza di tenere alta la guardia: 40 datori di lavoro irregolari, 63 lavoratori scoperti senza regolare contratto, di cui ben 40 totalmente “in nero”, privi di contributi, tutele sanitarie e previdenziali. Gli altri 23 avevano contratti fantasiosi o non erano stati comunicati agli enti preposti.
Bevagna, Costacciaro, Fossato di Vico, Bastia Umbra, Deruta, Gubbio, Città di Castello, Montone, Foligno: l’elenco dei comuni finiti nel mirino delle forze dell’ordine fotografa una mappa estesa del fenomeno. Un virus silenzioso, che indebolisce la concorrenza leale, penalizza le imprese oneste e mette a rischio la dignità di chi lavora.
Secondo i dati, i settori più esposti restano l’edilizia e la ristorazione, seguiti da commercio al dettaglio e piccole attività artigiane. Realtà frammentate, dove il controllo è più difficile e dove spesso la manodopera irregolare rappresenta l’unica possibilità di tagliare costi e margini, con buona pace di leggi, sicurezza e contratti collettivi.
Il lavoro nero, tecnicamente definito lavoro non regolare, è una piaga ancora troppo diffusa nel tessuto economico italiano. La legge è chiara e negli anni è stata più volte rafforzata per arginare il fenomeno. Il Testo Unico in materia di immigrazione, il D.Lgs. 286/1998 e il D.Lgs. 81/2008 sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, insieme al Jobs Act (D.Lgs. 151/2015), prevedono sanzioni severe per chi utilizza manodopera senza regolare contratto.
Quando un datore di lavoro impiega lavoratori “in nero” rischia una sanzione amministrativa base che varia da 1.800 a 10.800 euro per ogni lavoratore non dichiarato, con un incremento proporzionale in base alla durata dell’impiego irregolare. In caso di recidiva o se il lavoro nero riguarda stranieri senza permesso di soggiorno o minori non in età lavorativa, scattano anche sanzioni penali.
Oltre alle multe, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro può disporre la sospensione dell’attività imprenditoriale quando riscontra almeno il 10% di forza lavoro impiegata in nero sul totale dei dipendenti presenti. La regolarizzazione prevede l’immediata assunzione con contratto regolare e il pagamento dei contributi previdenziali non versati.
Non meno importante è l’aspetto previdenziale: i lavoratori in nero non hanno diritto a malattia, ferie, contributi pensionistici né coperture assicurative. Chi subisce infortuni sul lavoro non dichiarato, inoltre, ha diritto a richiedere un risarcimento all’Inail, che però a sua volta può rivalersi sul datore di lavoro.
La normativa italiana punta così a scoraggiare il lavoro sommerso tutelando la parte debole del contratto: il lavoratore. Come dimostrano i casi emersi a Terni, serve ancora un controllo serrato per far sì che la legge non resti lettera morta.