Un fantasma che per anni ha sfidato investigatori, tribunali e sentenze. Un uomo la cui ombra, secondo chi lo ha inseguito senza sosta, si allungava ben oltre i confini di Perugia, fino a raggiungere l’Albania. Dopo oltre un decennio di ricerche, l’incubo per decine di donne, alcune delle quali minorenni all’epoca dei fatti, si è concluso: l’uomo condannato per sfruttamento della prostituzione e parte attiva di una feroce organizzazione criminale è stato arrestato a Shkoder, nel nord-ovest dell’Albania. È qui che gli agenti, su mandato della Procura Generale della Repubblica di Perugia, lo hanno rintracciato e assicurato alla giustizia. Dietro di sé lasciava una scia di minacce, violenze, racket e vite spezzate. Ma ora, grazie a un paziente lavoro investigativo, la sua latitanza è finita.
Tutto comincia nel 2014. A Ferro di Cavallo, quartiere popolare di Perugia, e nelle aree periferiche della città, le forze dell’ordine scoprono una fitta rete di sfruttamento sessuale. L’organizzazione, composta da quattro persone - due italiani e due albanesi - reclutava giovani donne, per lo più provenienti dall’Est Europa, talvolta anche minorenni. Il meccanismo era sempre lo stesso: promettere un lavoro, garantire un futuro lontano dalla povertà, per poi trasformare quelle promesse in catene invisibili. Una volta arrivate in Italia, le ragazze venivano costrette a prostituirsi sotto minacce continue, abusi fisici e psicologici. Se non consegnavano il denaro incassato, subivano aggressioni verbali, percosse e violenze spaventose. In alcuni casi, venivano colpite con mazze da baseball. Ma l’incubo non si fermava lì: le minacce si estendevano anche alle famiglie nei Paesi d’origine, in un perverso ricatto che annientava ogni speranza di ribellione.
L’arresto, avvenuto in territorio albanese, non è frutto del caso. Dietro c’è un’operazione di cooperazione tra la Procura Generale di Perugia e le autorità di Shkoder, che hanno collaborato per localizzare e bloccare il latitante. "Questa azione dimostra la capacità della Procura generale di Perugia di operare con efficacia anche in contesti transnazionali, rafforzando la cooperazione internazionale e riaffermando il principio che nessun crimine può sottrarsi alla responsabilità penale", si legge in una nota diffusa a poche ore dalla cattura. Il provvedimento eseguito è un cumulo pene: l’uomo dovrà rispondere di anni di attività criminali e di una sentenza passata in giudicato.
Proprio mentre gli investigatori chiudevano la rete intorno al boss del racket in Albania, a Perugia andava in scena un altro arresto simbolico. Appena un mese fa, la Polizia di Stato ha individuato e fermato un 44enne italiano, classe 1981, all’interno di una struttura ricettiva dell’hinterland perugino. L’uomo era latitante da tempo: condannato in via definitiva a quasi tre anni di carcere e a un’ammenda di 2.000 euro, sperava di passare inosservato approfittando di un matrimonio. Ma a tradirlo è stato un sistema digitale implacabile: il portale “Alloggiati Web” — utilizzato dalle forze dell’ordine per monitorare gli accessi negli hotel italiani — ha segnalato la sua presenza. Identificato dalla Squadra Mobile, è stato trasferito in Questura e poi rinchiuso nella Casa Circondariale di Capanne. Un caso che evidenzia ancora una volta quanto la tecnologia possa fare la differenza nel dare esecuzione alle sentenze, impedendo ai condannati di rifugiarsi nell’anonimato.
Due casi diversi, ma un messaggio unico: non esiste latitanza eterna. Se un tempo la fuga all’estero o un’esistenza nell’ombra potevano bastare a sfuggire alla giustizia, oggi la cooperazione tra Stati, i sistemi di sorveglianza digitale e la capillarità delle forze dell’ordine stanno restringendo progressivamente gli spazi di manovra per chi tenta di sottrarsi alle proprie responsabilità. A Perugia, la Procura Generale ha ribadito con forza questa linea: massimo impegno nel dare seguito alle condanne, anche a distanza di anni, e nessuna tolleranza per i reati legati allo sfruttamento di soggetti vulnerabili.