Anan Yaeesh, 37 anni, palestinese della Cisgiordania e protagonista di un procedimento giudiziario legato a presunte attività terroristiche, è stato trasferito dopo quasi diciotto mesi di cella dal carcere di Terni a quello di Melfi, in Basilicata. La notizia è stata lanciata come un fulmine a ciel sereno e ha subito cavalcato le piazze, riaccendendo presidi, appelli e discussioni pubbliche. Un passaggio raccontato da molti come rinviato alle calende greche, poi attuato senza preavviso, che ha riaperto il fronte delle mobilitazioni e riportato la vicenda al centro del dibattito locale.
Il cambio di istituto penitenziario è arrivato all’indomani di un presidio davanti alle mura di Terni. Un dettaglio che ha acceso ulteriormente le proteste. Il trasferimento a centinaia di chilometri dal foro competente è stato definito dai movimenti un ostacolo concreto all’accesso alla difesa.
Il procedimento si svolge davanti alla Corte d’Assise de L’Aquila e coinvolge altri due cittadini palestinesi, Ali Irar e Mansour Doghmosh. Le contestazioni della procura si fondano sull’articolo 270-bis del codice penale, relativo ad associazione con finalità di terrorismo internazionale. La difesa insiste sulla natura politica del fascicolo e ricorda che l’estradizione verso Israele è stata negata dai giudici per il rischio di trattamenti inumani.
Il calendario dibattimentale è stato rimodulato più volte a causa di vari avvicendamenti, compreso il cambio del giudice a latere. Le parti hanno depositato memorie e richieste istruttorie aggiuntive. In aula, nelle scorse udienze, sono stati ascoltati funzionari di polizia e consulenti, mentre la difesa ha chiesto ulteriori testimoni a controprova.
Già nel novembre 2024, oltre cento persone si erano radunate a Terni chiedendo la scarcerazione di Yaeesh e opponendosi a qualunque ipotesi di consegna a Israele. Striscioni, bandiere, interventi dal megafono. In piazza realtà associative, collettivi studenteschi, sigle sindacali di base, comitati spontanei.
Con lo spostamento a Melfi la mobilitazione è stata rilanciata. Delegazioni sono annunciate anche dalla Basilicata e dalle regioni vicine. L’attenzione resta alta sulle garanzie difensive, sulla possibilità di colloqui con i legali e sull’accesso alle cure.
Le organizzazioni che lo sostengono denunciano come il passaggio a Melfi pesi sulla strategia processuale, rendendo più complessi i contatti con l’avvocato. La distanza incide su tempi e costi. Gli attivisti parlano di limitazioni più rigide rispetto a Terni e chiedono monitoraggi indipendenti sulle condizioni di vita in cella.
Durante una precedente udienza, collegato in videoconferenza dal penitenziario, Yaeesh aveva affermato: "Non sono io sotto processo, ma la causa della libertà del mio popolo". Una frase che racchiude la linea politica sostenuta da reti e comitati. Le stesse realtà segnalano che nel corpo dell’imputato sono ancora presenti esiti di ferite riportate in passato, un quadro che alimenta preoccupazioni sanitarie.
Sopravvissuto a diversi tentativi di eliminazione attribuiti all’intelligence israeliana, Yaeesh porta ancora quattro proiettili e numerose schegge nel corpo. Dal 2017 vive in Italia, dove ha chiesto protezione e ricostruito parte della sua quotidianità. Negli ultimi anni ha intrecciato rapporti con comunità locali e associazioni che oggi ne sostengono le spese legali e gli studi interrotti.
Il suo profilo divide l’opinione pubblica. Per i sostenitori è un militante che ha cercato riparo dalla guerra e dalla persecuzione. Per l’accusa è un tassello di una rete internazionale che avrebbe promosso attività illecite.
L’agenda del processo è fitta. La chiusura dell’istruttoria è fissata per il 31 ottobre 2025. La requisitoria del pubblico ministero è attesa il 21 novembre. Le arringhe difensive sono programmate per il 28 novembre, giornata che potrebbe contenere repliche e decisione.
Non si esclude un ulteriore slittamento. In passato più fasi sono state rinviate alle calende greche rispetto alle previsioni iniziali. Intorno al tribunale si prepara comunque una nuova ondata di iniziative, con presìdi annuncati e una comunicazione social che corre.
L’asse del confronto ruota su due piani: la tenuta delle prove e il perimetro delle garanzie. Le difese contestano le fonti di accusa, lamentano traduzioni incomplete e l’esclusione di testimoni ritenuti decisivi. I comitati, dal canto loro, legano la vicenda alla tutela dei rifugiati politici e alla libertà di espressione.
Sul fondo pesa la decisione che ha negato l’estradizione verso Israele, considerata dagli attivisti un punto fermo di legalità. La discussione pubblica resta accesa, alimentata da comunicati, assemblee e campagne online lanciata nelle ultime ore e già cavalcata da reti nazionali. Nel frattempo il caso resta sul tavolo della cronaca, con aggiornamenti attesi a ridosso delle prossime udienze.