All’insegna dell’amore e della satira in questo fine settimana, al Teatro Morlacchi di Perugia, va in scena “Il Male Sacro” dove Antonio Latella guida i giovani allievi dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica e Silvio d’Amico nella messa in scena di una importante opera di Massimo Binazzi, stimato letterato del dopoguerra, autore e regista teatrale umbro. Il testo de “Il male Sacro” fu scritto a partire da una lunga permanenza dell’autore in Calabria, dove infatti è ambientato. Il male cui fa riferimento il titolo è l’epilessia, disturbo neurologico associato storicamente a esperienze religiose o demoniache che secondo le credenze mettevano in contatto il malato con messaggi divini

A esserne colpita è il personaggio di Mara, figlia (insieme a Rosaria, Xenio e l’ultimo arrivato e primo figlio maschio, Alex) di Kyria e Pietro Morace.  Strutturato in quattro atti suddivisi in quadri, il testo parte dalla scena finale e vive attraverso la ricostruzione quasi visionaria dei ricordi del passato, rivissuti dagli occhi ammalati di Mara. Sullo sfondo delle vicende politiche e sociali ai tempi della Campagna d’Etiopia, fino allo scoccare della Seconda Guerra Mondiale, l’epopea di questa famiglia attraversa vicende e scosse: dal crudo rapporto tra Kyria e Pietro al matrimonio di Rosaria con il “borghesuccio” Antonio; dalle aspirazioni della pura Xenio, che però muore orribilmente, allo sguardo di Mara sulla realtà, al suo amore per il disertore Michele, fortemente legato anche al fratello Alex; dalla partenza del padre Pietro per la guerra in Etiopia, al tradimento della moglie in assenza di lui.

Teatro Morlacchi: “Il Male Sacro”all’insegna dell’amore e della satira  va in scena in tre date

In questo vortice di ricordi, la tragedia si compie nell’uccisione di Pietro, da parte di sua moglie Kyria, mentre Mara – nel male sacro – induce suo fratello Alex a uccidere la madre che giace con l’amante. Questo poema tragico, nella visione storica dell’autore, tra guerra, antifascismo, trasformazione delle condizioni economiche e sociali del paese, mette al centro la vicenda umana, seguendo un processo poetico di rara potenza.

Le note di regia descrivono “Il Male Sacro”, quello che gli antichi definivano tale, è quell’epilessia che assale il corpo e lo scuote, ma anche quell’epilessia che assale la terra e la scuote, la fa tremare, la annienta portandosi via civiltà e inciviltà. Quell’epilessia che ci rimette a contatto con una lingua violentata, quella di Binazzi. Un viaggio in una lingua evocativa, colma di mistero, spezzata e a tratti resa macerie e cenere; una lingua allucinata, dove l’andamento del testo crea una sorta di viaggio medianico all’ interno del quale i ricordi diventano memoria, quadri di una Via Crucis di una famiglia fagocitata dal potere politico, dalla tensione di un’Italia corrotta nelle radici governative.

Una Italia fanalino di coda dell’Europa o porta spalancata all’Europa, il tacco del grande stivale. Un affresco storico che viene costruito come un’evocazione degli spiriti, una sorta di seduta spiritica che rende allucinata ogni battuta; si muta in una lingua di serpente che perde la pelle e si mimetizza nascondendo verità incestuose camuffate in un andamento neorealistico che si abbandona ad aperture melò e favolistiche, fino a prendere il corpo tragico di una moderna tragedia che non si fa mai contemporanea.

Consegnare questo materiale al terzo anno dell’Accademia Silvio d’Amico significa mettere in mano ad ogni allievo una materia da plasmare perché venga abitata dall’essere loro stessi materia viva. Le battute diventano fatto artistico e non recitativo. La possibilità di avvicinarsi ad un rituale arcaico, che faccia dell’atto epilettico un avvicinamento all’estasi, dove si restituisce alla parola un corpo senza genitali; un’opera la cui identità artistica è la non identità. Un viaggio tra prosa e narrativa, in quella che sembra essere una forma di romanzo teatrale, purtroppo per troppo tempo dimenticata. Una sorta di corpo di ballo classico che si fa tamburo e si lascia percuotere creando una partitura ritmica che cerca di ritrovare la classicità in una riscrittura sciamanica di una partitura primordiale, blasfema e pagana.

Quattro quadri, quattro immersioni in stili di narrazione completamente diversi, quattro linguaggi teatrali prepotenti nel loro essere ricordo e quindi mai reali memorie, rievocati come miraggi allucinati di una mente – deserto che innalza il proprio male al sacro, quella dell’autore e delle sue protagoniste, eroine di un regno arcaico che si annienta piuttosto che consegnarsi al nemico invasore.
Una taranta antica, dove la luce è una fiamma di un cero accesa ad una Madonna che spia il sacro e il profano di corpi che si sfidano come perle nere, rosario snocciolato da mani incartapecorite da un tempo che ha smesso di essere logico e consequenziale.

Nella foto il regista Antonio Latella

La pazzia antica, di una famiglia di Atridi di quella ellenica Calabria che non vuole e non vorrà mai essere omologata ad una italianità troppo spesso figlia di un Atena clonata da un’idea di Ragione, in verità è nata nei dolori del parto e non dalla testa di Zeus Padre.
Rito laico ad un Dio troppo umano per essere divino. Gli attori allievi inseguono in coro un pifferaio magico, che in groppa ad un cavallo rubato al governo preferisce andare verso il mare piuttosto che verso la terra ferma. La terra trema, la penisola laica che tutti anelavano resta un miraggio di chi non ha voluto genuflettersi alla religione dei governanti, figli di un Dio minore, la cui madre si è fatta corruzione e mafia. Pregare non ci salverà, se la preghiera ci rende servi del potere e mai oppositori.

La regia è di Antonio Latella con Ilaria Arnone, Jacopo Carta, Vanda Colecchia, Eny Cassia Corvo, Leonardo Della Bianca, Chiara Di Lullo, Leonardo Di Pasquale, Luca Ingravalle, Fabiola Leone, Paolo Madonna, Federico Nardoni, Fausto Stefano Mario Peppe, Maria Vittoria Perillo, Domenico Pincerno, Michele Scarcella, Maria Grazia Trombino, Teresa Vigilante. Assistenti alla regia Consuelo Bartolucci, Fabio Faliero, Enrico Torzillo, costumi e supervisione all’allestimento scenografico Graziella Pepe;  ripresa della scenografia dello spettacolo “in cerca d’autore“ diretto da Luca Ronconi, di Bruno Buonincontri; movimenti e supervisione alle coreografie Francesco Manetti ; coreografie Luca Ingravalle, Fabiola Leone; luci Simone De Angelis ; consulenza al progetto sonoro Franco Visioli. Lo spettacolo è diviso in 2 parti: giovedì in scena la prima, venerdì la seconda, sabato è possibile assistere alla versione integrale.