Non è un libro per difendere. Non è un libro per assolvere. All’ombra della Storia è, come dice Stefania Craxi, un libro “per comprendere”. Comprendere un tempo in cui la politica era fatta di pensiero, comunità e visione. Un tempo che lei ha vissuto da figlia, ma anche da testimone lucida e appassionata. Quel tempo porta il nome di Bettino Craxi, uno dei protagonisti più discussi e controversi della Prima Repubblica italiana. Ma anche, oggi sempre più spesso riconosciuto, uno statista vero.
«La parola statista è stata abusata in questi anni, molti se ne sono fregiati. Ma Bettino Craxi, i fatti lo dimostrano, lo era davvero», afferma Stefania Craxi durante la presentazione del suo libro, riflettendo su quanto ancora la sua figura venga filtrata da pregiudizi, ideologie e silenzi.
Il Craxi raccontato da Stefania ieri sera, nella Sala Trecentesca di Palazzo Pretorio a Gubbio, non è solo l’uomo della politica estera, di Sigonella, dell’anticomunismo pragmatico o delle sfide alla DC. È anche e soprattutto l’uomo che ha interpretato per primo il cambiamento della leadership politica italiana. «Certo, era figlio del suo secolo, cresciuto in ideali risorgimentali e con un profondo senso dello Stato. Ma sapeva vedere avanti, cogliere la modernità, anticipare i tempi».
Non era un uomo del “io”, come molti leader odierni. «Le sue erano storie collettive. La sua forza nasceva da un “noi” che oggi si è perso. I partiti erano comunità vive, democratiche, radicate nei territori». E in quel contesto Craxi emergeva per merito, non per immagine. Il suo linguaggio era diretto, coinvolgente, capace di parlare al singolo giovane, non a un pubblico indistinto.
Il discorso alla Camera del 1992, in cui Craxi ammise pubblicamente l’esistenza di un sistema di finanziamento illegale, è ricordato da Stefania come un gesto di verità. «Non fu una chiamata di correo, come qualcuno l’ha etichettata. Fu un appello, un tentativo di chiudere politicamente un’epoca». E invece fu lasciato solo.
Quello che seguì, dice, «non fu solo la fine di mio padre. Fu la fine del primato della politica nel nostro Paese». Tangentopoli, letta oggi, appare come un passaggio epocale: lo scontro tra la sovranità democratica e il potere della grande finanza, tra rappresentanza e giustizialismo. «Non difendeva un sistema marcio. Difendeva il diritto della politica di riformarsi da sé. Non gli fu permesso».
Nessun martirio, nessun vittimismo. L’esilio di Craxi ad Hammamet fu, secondo Stefania, «una scelta consapevole e dolorosa». Non poteva difendersi in un Paese dove era diventato il nemico pubblico. Rinunciò a tutto: «la politica, il partito, la sua famiglia. Lo fece per fedeltà alle sue idee». E con quel gesto divenne ancora una volta politico, fino all’ultimo.
Uno dei passaggi più intensi del libro riguarda la dimensione della comunità. «La politica era fatta anche di amicizie indissolubili, di legami umani, culturali, ideali». I partiti erano scuole di vita, non di apparato. Si cresceva nella sezione, si imparava sul campo, si costruiva una classe dirigente attraverso il merito e il confronto.
Oggi, dice Stefania, «quei legami sono spezzati. La cultura ha divorziato dalla politica. La militanza è diventata carriera. I partiti sono contenitori personali, non più luoghi di pensiero». E se non c’è cultura, se non c’è memoria condivisa, non può esserci nemmeno vera politica.
Per anni, racconta Craxi, il mondo accademico ha ignorato gli anni Ottanta. Non si parlava di Craxi, nemmeno per criticarlo. Era una rimozione sistematica. «Ora qualcosa è cambiato. Oggi incontro studenti universitari che vogliono conoscere, che leggono, che studiano, che scrivono tesi su di lui». La Fondazione Craxi collabora con molte università, e l’aria – lentamente – cambia.
Tra i temi più cari a Craxi c’era il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo. Una politica estera autonoma, non antiamericana ma indipendente. Sigonella lo dimostra: «Scelse la legge internazionale come bussola. Scelse di essere un alleato leale, non un subalterno». E oggi? Stefania riconosce nel governo attuale un ritorno a quella visione geopolitica. «Il piano Mattei va in quella direzione. Ma l’Europa, senza una politica estera comune, rimane troppo debole».
C’è una frase che Stefania Craxi ripete spesso: «Non fu mio padre a suicidarsi. Si suicidò un’intera classe dirigente». Un’intera generazione che non ebbe il coraggio di difendere se stessa, che tacque, che tradì. «Mio padre parlò con verità. Gli altri preferirono il silenzio». E in quel silenzio, dice, «crollò tutto: i partiti, le comunità, il senso stesso della rappresentanza».
Nel libro Stefania riporta le parole di Massimo D’Alema, che ammise come il PSI di Craxi fosse l’ostacolo per la sinistra postcomunista. «Eravamo come una tribù indiana rinchiusa in un canyon – scrisse – e l’unica uscita era presidiata da Craxi». La soluzione fu eliminarlo. Un’ammissione che Stefania considera «una confessione tardiva e un atto di ipocrisia».
«D’Alema – dice – è lo stesso che 40 minuti dopo la morte di mio padre mi telefonò per offrire i funerali di Stato. Ma se Craxi meritava i funerali di Stato, allora meritava di essere curato e rispettato da vivo. Se invece era un criminale, non doveva averli. La verità è che non hanno mai voluto fare i conti con la sua storia».
Oggi Stefania Craxi è senatrice di Forza Italia. Le chiedono spesso se suo padre sarebbe stato di centrodestra. Lei risponde con realismo: «Non lo so, ma certo molti socialisti hanno trovato in Forza Italia un rifugio. E non sono tornati a sinistra. Quel mondo non è più il nostro». Forza Italia, dice, «ha ridato agibilità politica a un’area culturale che era stata cancellata».
C’è anche la Stefania Craxi produttrice televisiva, pioniera della tv privata, quella che ha portato in Italia il Grande Fratello, lavorato con Baudo, ideato format. «Io volevo fare la giornalista. Ma con quel cognome era difficile. Ho dovuto cambiare strada. Ho imparato un mestiere». Anche quello, oggi, è parte della sua storia.
Alla domanda se qualcuno le ha mai chiesto scusa, risponde con un sorriso amaro: «Non è il perdono che cerco. È la verità. E oggi, lentamente, la verità si fa strada».
«Sono orgogliosamente la figlia di Bettino Craxi. È il titolo cui tengo di più». Eppure, da ragazza, quel cognome le pesava. Usava quello della madre, cercava di farsi valere da sola. «Poi ho capito che il dono più grande che ho ricevuto è sentire il lungo respiro della storia». È questo il filo rosso che lega Stefania a suo padre, e che lega oggi il lettore al libro All’ombra della Storia: un racconto personale, politico, intimo e necessario. Per non dimenticare. Ma soprattutto, per ricominciare a capire.