Dopo l’entusiasmo suscitato nel corso dell’VIII edizione del Festiv’Alba, lo spettacolo teatrale Fedra di Ghiannis Ritsos fa il suo ritorno, conquistando nuovamente la scena. Il 29 agosto, al Teatro Romano di Spoleto ci sarà un’intensa performance, con Laura Lattuada nel ruolo di Fedra e Andrea Beruatto in quello di Ippolito. La regia e lo spazio scenico, curati da Alessandro Machìa, hanno contribuito a creare un’atmosfera suggestiva e rarefatta, adatta alla profondità emotiva del testo.

Fedra di Ritsos, un’opera nata in tempi difficili

Scritto durante il periodo di esilio e completato nel 1975, poco dopo la caduta del regime dei Colonnelli in Grecia, Fedra è uno dei lavori più appassionati di Ghiannis Ritsos. Questo dramma, appartenente alla raccolta Quarta dimensione, è stato considerato uno dei testi più toccanti del poeta. L’opera intreccia in modo magistrale il tema del desiderio con quello della morte, esplorando l’animo umano attraverso la figura della protagonista.

Al centro dello spettacolo c’è il tema del desiderio, una pulsione che divora l’anima di Fedra, portandola verso una confessione senza filtri. La sua attrazione per il giovane Ippolito viene espressa in maniera cruda e disperata. “Fedra parla, dice tutto, dichiara in maniera feroce il suo desiderio bruciante per il giovane e bellissimo figliastro Ippolito”, dice una nota. Questo desiderio, che non conosce limiti, si trasforma in una forza che confina con l’estasi, spingendo la protagonista a rivelare ogni sfumatura della sua passione.

Fedra vede nel corpo del giovane non solo un oggetto di desiderio, ma anche un mistero sacro. “Parla a un corpo che l’ascolta muto, quel corpo che si nega, si sottrae, e che per Fedra è una casa, un tempio”. La distanza che Ippolito mantiene nei confronti della matrigna alimenta il suo tormento, rendendo la tensione tra i due protagonisti ancora più palpabile.

Ippolito: il silenzio del rifiuto

Il giovane Ippolito, nella sua immobilità, rappresenta un enigma per Fedra. Viene descritto come una figura inaccessibile, posta su un piedistallo come una statua greca. “Ippolito, nella sua fissità da oggetto del desiderio, è esposto allo sguardo, su un piedistallo, come una statua greca, offerto per essere scrutato e toccato”. Questo distacco rende il suo personaggio ancora più affascinante e misterioso, accentuando il conflitto tra il desiderio irrefrenabile di Fedra e il suo rifiuto.

L’immagine di Ippolito come una figura quasi divina emerge con forza durante lo spettacolo, tanto che viene paragonato a un Cristo: “come un Cristo sul quale Fedra rovescia addosso parole deliranti e lucidissime, di passione cieca e di negazione”. La tensione tra i due protagonisti si esprime attraverso un contrasto tra la passione esplosiva di Fedra e il silenzio immobile di Ippolito, che sembra irraggiungibile.

Una scenografia fredda e minimalista

La messa in scena, curata da Alessandro Machìa, contribuisce a enfatizzare il dramma interiore dei personaggi. L’ambiente è essenziale, quasi spoglio, e ricorda un obitorio: “Questa liberazione della parola avviene in una scena obitorio, fredda, invasa da una luce bianca e fatta di pochi elementi d’arredo”. In questo spazio glaciale, le parole di Fedra diventano strumenti affilati, bisturi che tentano di violare il corpo di Ippolito: “i cui bisturi sono proprio quelle parole che in un eccesso lirico e allo stesso tempo erotico, tentano di toccare il corpo di Ippolito”. La scenografia minimalista rafforza il senso di isolamento dei personaggi, immersi in un’atmosfera rarefatta e lontana dalla realtà quotidiana.

Il culmine del dramma si raggiunge quando Fedra, di fronte all’impossibilità di conquistare Ippolito, sceglie di porre fine alla sua esistenza. Il suicidio diventa l’unico modo per interrompere il tormento causato da un desiderio senza compimento. “Ma a Fedra, inconciliabile e umanissima, di fronte all’impossibilità di conoscere quel corpo e alla sproporzione del suo desiderio senza compimento, di fronte alla ‘gelida santità’ di Ippolito, non resta che il suicidio”. L’ultima azione della protagonista è la scrittura di una lettera infamante, con la quale tenta di infliggere a Ippolito un’ultima ferita: “la vendetta della lettera infamante, come ultima possibilità di ‘toccare’ l’amato”. 

L’intreccio di parole e gesti porta lo spettatore a riflettere sulla fragilità umana, sul potere del desiderio e sulla distanza che spesso separa ciò che vogliamo da ciò che possiamo avere.