06 Jul, 2025 - 12:08

Spade, strategie e potere: i condottieri umbri che hanno cambiato il volto dell’Italia

Spade, strategie e potere: i condottieri umbri che hanno cambiato il volto dell’Italia

Preparatevi a immergervi in un avvincente viaggio nel cuore tumultuoso dell’Italia rinascimentale, un’epoca in cui il fragore delle armi si mescolava al clangore dei pensieri più audaci e le sorti di intere città venivano decise da uomini animati da ambizione, ingegno e un coraggio fuori dal comune. L’Umbria, terra celebre per i suoi silenzi sacri e la profonda spiritualità che l’ha attraversata, nasconde anche un volto meno conosciuto: quello dei condottieri, guerrieri carismatici e strateghi raffinati, capaci di impugnare la spada con una mano e di tessere intricate alleanze con l’altra, lasciando un segno indelebile nel corso della storia italiana.

In queste terre, sospese tra borghi fortificati che sembrano usciti da un libro di fiabe e vallate spettacolari dove il tempo sembra essersi fermato, nacquero figure che riuscirono a cambiare il volto dell’Italia. Tra intrighi, tradimenti, battaglie sanguinose e momenti di gloria fulgente, questi uomini plasmarono un destino che andava ben oltre il semplice campo di battaglia: erano protagonisti di un grande gioco di potere, dove strategia, diplomazia e forza d’animo si intrecciavano in un equilibrio delicato e pericoloso.

Seguite le loro tracce, immergetevi nelle loro imprese, lasciatevi catturare dal fascino unico di una regione che, molto prima di essere riconosciuta come il cuore verde d’Italia, è stata un cuore pulsante di potere, passioni e rivoluzioni. Scoprirete così un’Umbria nuova, fatta di eroi e antichi castelli, di storie che aspettano solo di essere raccontate e rivissute, in un racconto che vi condurrà nei meandri più profondi e avvincenti della storia umbra.

Braccio da Montone – L’ombra del destino che scosse l’Italia centrale

Immaginate l’Umbria del tardo Trecento: una terra apparentemente silenziosa, scandita dai rintocchi lenti delle campane monastiche e immersa nella quiete di colline spirituali e borghi raccolti. Ma sotto questa superficie di pace si celano tensioni pronte a esplodere, ambizioni taciute, lotte di potere, giuramenti e tradimenti, in un’epoca in cui le sorti dei popoli si decidevano sul filo della spada. È in questo scenario che nasce Andrea Fortebracci, passato alla storia con il nome di Braccio da Montone. Una figura che incarna fino in fondo la doppia anima del Rinascimento italiano: raffinata e brutale, idealista e spietata, colta e guerriera. Braccio non è solo un capitano di ventura, ma una visione di potere incarnata in un uomo, una forza irrefrenabile che dal cuore dell’Umbria si proietta verso l’intera penisola, travolgendo città, eserciti, e persino i piani della Chiesa.

Nato nel 1368 a Montone, piccolo borgo fortificato nei pressi di Perugia, Braccio fu fin da giovanissimo segnato da una vocazione al comando e da un’inquietudine che lo spinse ben oltre i confini della sua terra natale. Il suo nome, destinato a entrare nel mito, fu forgiato sul campo: non solo fu uno dei più celebri capitani di ventura del Quattrocento, ma anche un abile politico e stratega, capace di immaginare un'Umbria indipendente, unificata sotto il suo vessillo. Militò inizialmente nella prestigiosa compagnia di San Giorgio, dove apprese l’arte della guerra accanto ai migliori. Ma fu con le sue imprese personali che lasciò un’impronta indelebile: conquistò città su città, da Perugia a Terni, da Todi a Narni, fino a Orvieto, ponendo le basi di un vero e proprio “Stato braccesco” in pieno cuore d’Italia.

Il culmine della sua ascesa arrivò nel 1416, con la celebre battaglia di Sant’Egidio. Fu uno scontro epocale, che durò ore e cambiò i destini dell’Umbria: Braccio trionfò su Carlo Malatesta e fece il suo ingresso trionfale a Perugia, che da quel giorno non fu più la stessa. Non si limitò a governare con la forza: organizzò l’amministrazione, promosse opere pubbliche, diede forma concreta alla sua visione di potere, mostrando una lucidità politica rara tra i condottieri del tempo. Ma, come accade spesso alle figure fuori dal tempo, anche la sua parabola fu accompagnata da crescenti tensioni. Fiero, autonomo, scomodo, Braccio rifiutò di piegarsi alle logiche papali e per lungo tempo rimase scomunicato, in aperta sfida con il potere ecclesiastico. La sua fine arrivò nel 1424, sotto le mura dell’Aquila, durante una battaglia campale. Fu colpito mortalmente e fatto prigioniero. Morì pochi giorni dopo, in catene, ancora in conflitto con la Chiesa, ma senza mai rinnegare la propria visione.

Spada e ingegno: la doppia anima di Ascanio Della Corgna

Provate a visualizzare l’Italia nel pieno del suo fermento rinascimentale, un’epoca in cui le arti e le lettere sbocciavano tra clangori di armi e sfarzi di corti, dove la cultura si intrecciava con la guerra e l’ambizione vestiva sia l’armatura che il velluto. In questo contesto vivido e contraddittorio prende forma la figura di Ascanio Della Corgna (Perugia, 1514 – Roma, 1571), uno di quei personaggi che sembrano usciti dalle pagine di un romanzo cavalleresco. Nobile per lignaggio, condottiero per temperamento, ingegnere militare per ingegno e stratega per vocazione, Ascanio fu tutto questo – e forse qualcosa in più. Un uomo capace di dominare tanto il campo di battaglia quanto le stanze affrescate del potere, dove la spada e il pensiero si incontravano in un equilibrio perfetto.

Ambidestro, maestro d’armi e uomo d’onore, Ascanio si distinse presto per coraggio e abilità tattica, partecipando a campagne militari decisive per l’equilibrio geopolitico del suo tempo: dalla difesa di Malta contro i Turchi alla leggendaria battaglia di Lepanto del 1571, dove combatté al fianco della Lega Santa in uno degli scontri navali più celebri della storia. Ma prima ancora di affrontare le flotte ottomane, aveva già scritto pagine di leggenda con imprese ardite e duelli memorabili, come quello – tanto discusso quanto spettacolare – contro Giovanni Taddei, sulle mura di Pitigliano, che ne consacrò il valore cavalleresco agli occhi di tutta Italia.

Ma Ascanio non fu soltanto un abile soldato. Fu anche un fine organizzatore politico e un grande promotore artistico. Quando nel 1563 ottenne il titolo di Marchese di Castiglione del Lago, non si limitò a esercitare il potere: volle dargli una forma visibile, eterna. Così affidò a Galeazzo Alessi e al Pomarancio la trasformazione del suo palazzo in un autentico scrigno rinascimentale: il Palazzo della Corgna, oggi uno dei simboli culturali più preziosi dell’Umbria. Le sue sale affrescate narrano, in chiave mitica e celebrativa, le gesta del marchese: una biografia in immagini, dove l’arte diventa strumento di memoria e affermazione politica.

La sua morte arrivò improvvisa, pochi mesi dopo Lepanto. Una malattia contratta in mare lo colpì duramente, e Ascanio si spense nel 1571, a Roma, lontano dai suoi palazzi e dalle sue terre. Eppure, nonostante la morte, la sua figura sopravvisse al tempo, tanto forte era stata la sua presenza. Fu sepolto a Perugia, nella chiesa di San Francesco al Prato, con gli onori riservati ai grandi. E grande lo fu davvero: nella guerra, nell’arte, nella visione.

Vitellozzo Vitelli – L’arte della guerra e il prezzo della sfida

Nel cuore del Rinascimento italiano, tra corti in fermento e città in lotta per l’egemonia, emerge una figura capace di incarnare lo spirito impetuoso dell’Umbria di fine Quattrocento: Vitellozzo Vitelli (Città di Castello, 1458 – Senigallia, 1502). Uomo d’arme e di potere, il suo nome evoca ancora oggi scenari di congiure, assedi e alleanze fragili come vetro. Proveniente da una delle famiglie più influenti della regione, Vitellozzo non fu una semplice comparsa: fu protagonista di una stagione turbolenta, in cui la fedeltà era un lusso e la gloria un affare di sangue. 

Figlio di Niccolò Vitelli, signore di Città di Castello, Vitellozzo cresce respirando l’arte del comando e il profumo della strategia. I Vitelli non erano solo condottieri: erano mecenati, politici spregiudicati, raffinati costruttori di potere. Vitellozzo assorbe tutto questo e lo trasforma in un destino: intraprende la carriera militare giovanissimo, distinguendosi per coraggio, astuzia e uno spirito risoluto, quasi brutale. Si unisce alle armate di Carlo VIII di Francia durante la discesa in Italia, scegliendo il campo più ambizioso e rischioso. La guerra è il suo elemento naturale, il suo modo per esistere nel mondo. Conquista, trattiene, tratta, si impone. Divenuto signore di Città di Castello, difende con tenacia la sua autonomia, pur muovendosi abilmente tra le mutevoli geometrie politiche del tempo.

Ma l’Italia del Rinascimento è anche il regno del sospetto. Quando l’ascesa spietata di Cesare Borgia — il “Valentino” — comincia a minacciare le libertà dei piccoli signori locali, Vitellozzo intuisce il pericolo. Sospettoso, orgoglioso, e deciso a non cedere il passo, diventa una delle anime della Congiura della Magione, un patto segreto tra signori umbri, romagnoli e marchigiani per arginare il potere crescente dei Borgia. È il 1502. La tensione sale, l’inganno è dietro l’angolo. Cesare, maestro assoluto nella sottile arte della simulazione, li invita a un incontro di riconciliazione a Senigallia. Vitellozzo accetta. Forse per ingenuità, forse per senso dell’onore. Forse perché in quell’epoca, anche morire con fierezza valeva quanto vincere. Verrà strangolato quella stessa notte, insieme a Oliverotto da Fermo. Nessun processo. Nessuna parola. Solo il silenzio spietato della morte ordinata dal potere.

La sua morte segna una svolta: il dominio dei Vitelli si spezza, Città di Castello viene inglobata dai Borgia, e l’Umbria perde una delle sue voci più forti e ribelli. Ma la memoria di Vitellozzo non si spegne. Vive nei palazzi rinascimentali che la sua famiglia ha edificato con lungimiranza, nelle leggende popolari, negli affreschi e nei documenti che raccontano di un’epoca in cui il confine tra gloria e rovina era sottile come la lama di una spada.

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Francesco Mastrodicasa
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