Sanremo lancia il segnale, Assisi risponde. Il Festival della canzone italiana si fa portavoce di un messaggio di pace che, almeno per una sera, riesce a conquistare parte del pubblico. Sul palco dell’Ariston, Noa e Mira Awad intonano “Imagine” di John Lennon, mentre in sovrimpressione scorrono le immagini della Basilica di San Francesco.
Un simbolo potente, apprezzato da chi riconosce in Assisi la città della pace per eccellenza. La speranza è sempre la stessa: che la musica possa contribuire a far cessare il rumore delle armi. Ma, nonostante l’intento, l’amaro in bocca rimane, perché la realtà è ben più complessa delle note su un pentagramma.
Standing ovation. Fiori. Applausi scroscianti. E poi il sipario cala e si finge che tutto sia risolto. La musica unisce, certo, ma è anche il miglior paravento per mascherare il fatto che non esistono due fazioni sullo stesso piano, ma una realtà in cui c’è chi occupa e chi subisce. Sanremo cerca di aggiustare il tiro dopo il terremoto del 2024, ma l’eco delle polemiche su Ghali e il biglietto letto in tutta fretta da Mara Venier a Domenica In non si dissolve con un colpo di bacchetta orchestrale. L’operazione di pace, con Assisi a fare da sfondo rassicurante, è una cucitura tirata in fretta e furia, un rattoppo su una ferita ancora aperta. Lo spettacolo deve andare avanti, la coscienza deve essere salvata, ma il pubblico non è così ingenuo da bersi la favola fino in fondo.
Il videomessaggio del Papa
Prima dell’esibizione c’è stato un videomessaggio di Papa Francesco, trasmesso integralmente. Il Pontefice ha sottolineato come la musica sia un collante universale, capace di costruire ponti laddove esistono solo macerie. Parole che risuonano come un monito in un’epoca in cui le guerre continuano a spezzare vite e a cancellare intere generazioni.
Un messaggio forte, che ha trovato spazio sul palco di Sanremo e che, almeno per un attimo, ha tolto alla kermesse quella patina di leggerezza che la contraddistingue. Il Festival si è fatto portavoce di questa riflessione, nel tentativo di dimostrare che la musica, a volte, può essere più di un semplice spettacolo.
Noa, Mira Awad e le immagini di Assisi
Poi arriva il momento clou: l’esibizione della cantante israeliana Noa e della palestinese Mira Awad. Due voci che si incrociano su un pezzo che è diventato sinonimo di utopia e speranza. “Immaginate che l’intera famiglia umana viva in sicurezza e libertà”, dicono con una convinzione che rimbalza sulle pareti dell’Ariston. E dietro di loro, Assisi. La città della pace per eccellenza, il richiamo a un ideale che si cerca disperatamente di mantenere vivo tra fiumi di parole e immagini ad effetto.
L’esibizione, trasmessa in mondovisione, è più di un semplice duetto: è il tentativo di ricucire con le note ciò che la politica continua a strappare. Per Mira Awad è il debutto su quel palco, mentre Noa ci torna dopo trent’anni dalla sua prima apparizione al Festival. Un legame artistico che risale al 2000 e che le ha portate, nel 2009, a calcare la scena dell’Eurovision Song Contest come simbolo di un dialogo che esiste, ma fatica a farsi spazio.
Noa, all’anagrafe Achinoam Nini, è nata a Tel Aviv in una famiglia di ebrei yemeniti e ha costruito la sua carriera muovendosi tra Medio Oriente ed Europa, fino a ricevere il titolo di Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Mira Awad, palestinese con cittadinanza israeliana, è cantante, attrice e volto noto della serie “Arab Labor”. Prima artista araba a rappresentare Israele all’Eurovision, ha portato per la prima volta sul palco della competizione un brano che univa ebraico e arabo nella stessa melodia.
Di fatto, abbiamo due artiste israeliane sul palco, anche perché ricordiamo che israeliano non è sempre sinonimo di persona di religione ebraica: i palestinesi con cittadinanza israeliana sono circa 1,7 milioni, ovvero circa il 20% della popolazione di Israele. Pur avendo diritto di voto e rappresentanza politica, affrontano discriminazioni in vari ambiti, come accesso alla terra, istruzione e lavoro.
Le polemiche del 2024 sulla questione palestinese
Certo, questo del 2025 arriva proprio dopo le polemiche dell’anno scorso. Durante il Festival di Sanremo 2024, la questione palestinese ha acceso più di qualche miccia. L’artista Ghali ha scatenato reazioni dei vertici Rai con il suo intervento sul palco dell’Ariston, chiudendo la sua esibizione con un deciso “Stop al genocidio”, riferendosi alla drammatica situazione a Gaza. Parole pesanti come macigni, che hanno immediatamente scatenato la reazione dell’ambasciatore israeliano in Italia, Alon Bar, il quale ha bollato l’uscita del cantante come “vergognosa” e accusato il Festival di aver dato spazio a “odio e provocazioni in modo superficiale e irresponsabile”.
Ghali, però, non si è fatto intimorire e ha risposto durante un’intervista a “Domenica In”, rivendicando il diritto di parlare di guerra e violenza, argomenti che, a suo dire, lo accompagnano fin dall’infanzia. Non è stato il solo a far sentire la propria voce: anche Dargen D’Amico ha lanciato un appello pacifista dopo la sua esibizione con “Onda Alta”, dicendo senza mezzi termini che “il nostro silenzio è corresponsabilità” e invocando un immediato cessate il fuoco.
Le polemiche sono arrivate dritte anche alla scrivania dell’amministratore delegato della Rai, Roberto Sergio, che ha affidato a Mara Venier la lettura di un comunicato in cui esprimeva solidarietà al popolo israeliano e alla comunità ebraica, cercando di ricomporre la frattura mediatica. Come se giustificare un genocidio sia sinonimo di altro.
Tutto questo ha lasciato un solco profondo e oggi, guardando alla scelta del 2025 di ospitare Noa e Mira Awad, sembra proprio che si voglia mettere un cerotto su quella ferita ancora aperta. Il messaggio di pace c’è, è nobile e condivisibile, ma ha il sapore di una toppa cucita in fretta e furia per evitare nuovi scossoni. Sanremo prova ad aggiustare il tiro, ma non riesce nell’intento di essere equidistante, neanche quest’anno.