Continuiamo il racconto delle avventure di Francobaldo Chiocci come inviato speciale de Il Tempo, iniziate nel precedente articolo. Lo avevamo lasciato in Iran durante la guerra Iran-Iraq.
Narraci come andò a finire la tua avventura nell’Iran in guerra.
“Fummo accompagnati al fronte con dei fuoristrada con gli autisti che gridavano ‘Allahu Akbar!’, invocando che qualche bomba ci colpisse perché saremmo andati tutti in paradiso. Puoi immaginare quale fosse il mio stato d’animo…”
“Una notte al fronte, dormivamo sotto una tenda e sentivamo le bombe esplodere vicino. Con noi c’era uno dei figli di Gheddafi che faceva il giornalista e che all’improvviso cominciò a gridare ‘Italiano, italiano!’. Dopo aver ripetuto molte volte questa frase, prese il sacco a pelo e andò a dormire all’aperto. Io pensai che fosse per rancore verso noi italiani cha avevamo occupato la Libia e ne avevamo fatto una colonia e anche per il comportamento del generale Graziani. Tuttavia il mio accompagnatore mi chiarì la causa delle imprecazioni ‘Ma che Graziani… Se l’è presa con te che russavi così forte da coprire il rumore delle esplosioni!”.
“Questo fu un intermezzo comico ma al fronte vidi cose orrende per davvero. Lì ho scoperto la forza della fede unita al fanatismo religioso, una fede folle, paradossale e anacronistica. Ai bambini dei quali si servivano come carne da macello per bonificare i campi minati e quindi saltare in aria sugli ordigni, mettevano al collo una chiave: era la chiave del paradiso. Gli sciti hanno il culto del sangue e a quel tempo il sangue zampillava dappertutto in Iran”.
Il racconto delle avventure di Francobaldo Chiocci si sposta in Irlanda
Un capitolo importante della tua carriera riguarda l’Irlanda alla quale hai dedicato anche un bel libro: “L’arpa, la croce, il fucile”…
“In Irlanda intervistai alla macchia il capo dell’IRA dopo la strage di Londonderry dove furono uccisi moltissimi irlandesi e poi realizzai l’intervista storica a Éamon de Valera, presidente della Repubblica Democratica dell’Eire, uno dei fondatori del’IRA, Irish Republican Army, negli anni Venti che era stato condannato a morte dagli inglesi. Lo incontrai a Dublino accompagnato dall’ambasciatore italiano ma gli accordi erano che non dovessi pubblicare le cose che mi confidava. Durante l’intervista, De Valera che era stato anche professore di matematica, mi mostrò un disegno che aveva realizzato sua figlia, deputato europeo del Sinn Féin, nel quale era raffigurata l’Irlanda dipinta di verde e l’Ulster degli orangisti dipinto appunto di arancione“.
‘Sarebbe così bella l’Irlanda se non ci fosse questa macchia arancione’ dichiarò De Valera e nel dirlo sferrò un pugno proprio sopra l’Ulster. L’ambasciatore si raccomandò di non riportare questo episodio per non creare problemi diplomatici ma quando riferii la cosa ad Angiolillo, il direttore e fondatore de Il Tempo questi insistette affinché la pubblicassi. Perciò divulgò l’articolo nel quale descrivevo De Valera come un uomo che amava appassionatamente il suo popolo e anche l’episodio del pugno. In quell’occasione l’ambasciatore telefonò contrariato al direttore del Il Tempo accusandomi di aver tradito la fiducia. Poco dopo invece mi arrivò una lettera dell’aiutante di campo di De Valera che mi ringraziava perché ero stato l’unico giornalista che aveva compreso i suoi sentimenti”.
Nel sudest asiatico alla ricerca dei Boat People con la Marina Militare
Tra i luoghi più pericolosi a quel tempo c’era il Vietnam. In quale occasione raggiungesti quel teatro di guerra? Qual è il racconto delle avventure in quei luoghi remoti?
“Raggiunsi il Vietnam alla fine della guerra, quando l’Italia ebbe l’idea di mandare una squadra navale della Marina Militare in soccorso degli sconfitti sud-vientnamiti. Partirono dai porti italiani tre navi da guerra: l’incrociatore Giuseppe Garibaldi, l’incrociatore Andrea Doria e una nave appoggio, con la missione d andare in aiuto ai Boat Peoples, gli sconfitti del sud che fuggivano per mare su imbarcazioni spesso improvvisate”.
“Il compito della squadra navale italiana era di accoglierli e trarli in salvo. Io ero imbarcato sull’Andrea Doria che portava lo stesso nome dello sfortunato transatlantico naufragato al largo di New York. Ero vestito da marinaio perché i miei bagagli erano stati inviati per errore in Australia dalla compagnia aerea… Il comandante Stiggini mi sembrò in un primo momento un uomo non all’altezza della situazione, invece proprio da lui ho capito in seguito quale fosse la legge del mare, perché riuscì a portare a termine un salvataggio in condizioni di mare proibitive“.
Alla fine prevalse la legge del mare
“Ci avevano affidato un interprete cinese dell’Università di Bologna senza sapere che in quell’area non si parlava cinese ma vietnamita che naturalmente è una lingua completamente diversa. Nonostante tutto la squadra navale italiana riuscì a portare a bordo i profughi. Vidi con i miei occhi delle scene incredibili, come quella di una donna che tirava fuori dal sederino del figlio le catenine d’oro che vi aveva nascosto. Lì il comandante Stiggini dimostrò di essere un vero uomo di valore perché su una nave va rispettata la legge del mare e lui fu all’altezza della situazione. Da quel giorno fu considerato un eroe”.
Ci congediamo da Francobaldo col proposito di ampliare il racconto delle avventure di inviato speciale che potrebbero con facilità colmare le pagine di molti volumi.