Una sentenza destinata a fare storia è quella emessa il 4 dicembre dal Tribunale di Perugia, che ha inflitto condanne per 277 anni di carcere a 30 imputati nell’ambito del processo ‘Quarto passo’. L’inchiesta, avviata nel 2012 e culminata con una spettacolare operazione nel 2014, ha confermato l’infiltrazione della ‘Ndrangheta in Umbria. Regione considerata fino a poco tempo fa immune da fenomeni mafiosi di questa portata.

Una sentenza che fa la storia: le condanne per il processo ‘Quarto passo’

L’indagine, condotta dalla Direzione Distrettuale Antimafia e dai carabinieri del ROS, ha portato alla luce un’organizzazione criminale radicata nel clan Farao Marincola di Cirò, nel Crotonese. Con un tentativo ben strutturato di acquisire il controllo economico del territorio umbro. Il dispositivo della sentenza ha accolto in larga parte le richieste avanzate dal pubblico ministero Gemma Miliani. La quale aveva chiesto condanne per un totale di 405 anni. Tra i reati contestati, oltre all’associazione di stampo mafioso, figurano estorsioni, usura, traffico di droga e prostituzione, attività che avrebbero permesso al sodalizio di esercitare un’influenza crescente sull’economia locale.

Tra le principali condanne nel processo ‘Quarto passo’ spiccano quelle a Cataldo Ceravolo, che ha ricevuto una pena di 28 anni e 8 mesi di reclusione, e Cataldo De Dio, condannato a 27 anni. Altri imputati, come Mario Campiso e Cataldino Campiso, hanno ricevuto pene rispettivamente di 14 anni e 5 mesi e 14 anni e 8 mesi. La complessità delle accuse e la pluralità dei reati dimostrano la capillare organizzazione e i metodi del gruppo, capaci di adattarsi alle caratteristiche del territorio. Nel complesso sono 31 le persone ritenute colpevoli, mentre soli tre imputati sono stati assolti.

Per gli avvocati difensori, tuttavia, l’accusa di associazione mafiosa non è fondata, e il ricorso in appello è già stato preannunciato.

Le indagini e il lungo percorso verso la giustizia

Le indagini che hanno portato a questa storica sentenza hanno richiesto anni di lavoro meticoloso, con intercettazioni, pedinamenti e una profonda analisi delle attività economiche sospette. Nel dicembre 2014 il blitz che portò all’arresto di 59 persone segnò un punto di svolta mostrando la pervasività dell’organizzazione criminale. Le accuse rivolte agli imputati – che hanno ricevuto le condanne nel processo ‘Quarto passo’ – riguardano infatti una vasta gamma di reati. Da quelli economici come bancarotta fraudolenta e truffa, a crimini più violenti legati al controllo del territorio e al traffico di stupefacenti. La strategia del gruppo puntava a infiltrarsi in attività commerciali locali e ad acquisire il controllo di settori chiave, utilizzando minacce e violenza per consolidare il proprio potere.

“La sentenza, con le affermazioni di responsabilità in essa contenute e con i trattamenti sanzionatori irrogati in proporzione alla gravità delle condotte, ha disarticolato un organismo delinquenziale ripristinando l’ordine pubblico violato ed assicurando la tranquillità sociale dei cittadini di Perugia e di quelli appartenenti alla comunità umbra”. Queste le parole di Nicola Di Mario, legale delle parti civili Regione Umbria e Comune di Perugia.

La decisione del tribunale, infatti, riconosce “l’esistenza, nel territorio perugino, di una struttura criminale di tipo mafioso finalizzata alla commissione di una pluralità di reati caratterizzati da notevole portata offensiva”. Di Mario sottolinea, nella vicenda, il contributo decisivo del pubblico ministero Gemma Miliani e del ROS dei carabinieri. Sia nelle indagini che nel dibattimento.

Processo ‘Quarto passo’, le condanne alla ‘Ndrangheta: una rete criminale radicata nel tessuto economico umbro

Secondo le accuse la struttura mafiosa era riuscita a tessere una rete di relazioni che le consentiva di operare indisturbata per anni. L’organizzazione non si limitava alle attività illecite tradizionali, ma aveva ambizioni più ampie come quella di radicarsi profondamente nel tessuto economico e sociale dell’Umbria. La capacità del gruppo di riciclare denaro sporco attraverso imprese apparentemente legittime ha rappresentato una delle maggiori sfide per gli inquirenti, che hanno dovuto dimostrare il collegamento tra queste operazioni e la cosca calabrese.

Il verdetto di primo grado, con condanne che vanno dai 3 ai 28 anni di reclusione, è stato accolto come un successo significativo nella lotta alla criminalità organizzata. Resta chiaro, però, che la battaglia è tutt’altro che conclusa. I legali della difesa hanno già annunciato ricorso, contestando la configurazione del reato associativo e alcune delle pene inflitte. Il processo ‘Quarto passo’ rappresenta, dunque, un punto di partenza per una riflessione più ampia sul contrasto alla mafia fuori dalle aree tradizionalmente colpite.

La sentenza non si limita a punire i responsabili, ma lancia un messaggio chiaro: nessun territorio è immune dall’infiltrazione mafiosa. Ma anche, nessun territorio è fuori dalla portata della giustizia. La ‘Ndrangheta ha dimostrato di sapersi adattare e radicare anche in regioni lontane dalla sua terra d’origine, sfruttando debolezze e lacune nei controlli. La risposta dello Stato, evidenziata da questa sentenza, segna un passo importante ma richiede anche un impegno continuo per garantire che episodi come questo non si ripetano.