Nel processo Quarto Passo, che ha portato alla luce la presenza della mafia in Umbria, il sostituto procuratore Gemma Miliani ha formulato una richiesta di condanne che lascia poco spazio a interpretazioni: 49 condanne e oltre 365 anni di carcere complessivi per gli imputati. Si tratta della più vasta indagine sulle infiltrazioni mafiose mai condotta nella regione, con ben 52 imputati legati, secondo l’accusa, alla cosca ‘ndranghetista Farao – Marincola di Cirò e Cirò Marina. Le accuse spaziano dall’usura alle estorsioni violente, passando per truffe e furti aggravati, il tutto mirato al controllo dell’economia locale, in modo diretto o indiretto.
Quarto Passo, l’organizzazione mafiosa e il piano per mettere le mani su imprese e beni
Secondo i magistrati, il clan era ben strutturato e il suo obiettivo principale era quello di acquisire il controllo di attività economiche attraverso azioni criminali pianificate nei minimi dettagli. La cosca avrebbe agito partendo dalla frazione perugina di Ponte San Giovanni, mantenendo legami stretti con le famiglie mafiose di Cirò e Cirò Marina. In questa operazione di penetrazione mafiosa, gli imputati avrebbero tentato di mettere le mani su 39 imprese, 106 immobili, 129 veicoli, 28 contratti assicurativi e oltre 300 conti bancari. Un piano preciso e articolato, volto a costruire una rete economica che rafforzasse il loro potere in Umbria, con metodi intimidatori e violenti, tra cui incendi dolosi a danno di attività commerciali e privati.
Tra le richieste più rilevanti, quella destinata a Cataldo Ceravolo, uno dei leader del gruppo criminale. Arrestato in Germania durante il blitz del Ros nel dicembre 2014, Ceravolo si era rifugiato all’estero nel tentativo di sfuggire alle autorità, temendo per la sua vita a causa di una collaborazione segreta con gli inquirenti che era stata scoperta. Per lui, la richiesta è di 29 anni di reclusione, a conferma della sua posizione di vertice nell’organizzazione e del peso delle accuse mosse nei suoi confronti. La sua cattura in terra straniera rappresenta un momento chiave in questa operazione, che ha smantellato una delle più potenti cellule mafiose attive nella regione.
Il ruolo delle parti civili e il dibattito sulle difese
Il processo, che va avanti dal 2016, si prepara a una nuova fase. La settimana prossima sarà il turno delle parti civili, tra cui figurano la Regione Umbria, il Comune di Perugia, la Cgil, oltre a Libera e le associazioni Paolo Borsellino e Antonino Caponnetto. Queste realtà hanno deciso di schierarsi contro il clan mafioso, sostenendo l’accusa con la loro costituzione come parte civile.
Successivamente, toccherà alla difesa, che sarà rappresentata da un nutrito gruppo di avvocati, tra cui Zinci, Adorisio, Cozza, Modesti, Paccoi, Egidi e molti altri. Si prevede una battaglia legale lunga e complessa, che vedrà i legali impegnati nel tentativo di smontare le accuse e ridurre l’entità delle condanne richieste dal pm Miliani.
Tutta l’inchiesta: i punti salienti
Un’inchiesta nata per caso, scoperta dai Ros nel dicembre 2014, con un blitz che ha portato all’arresto di 59 persone. Ma da lì è emerso qualcosa di molto più grande: la ‘ndrangheta in Umbria non è una semplice diramazione della cosca Farao-Marincola, ma un’organizzazione criminale autonoma, profondamente radicata nel territorio.
Il clan, collegato alla cosca Farao-Marincola, è stato descritto come un gruppo autonomo che operava in Umbria mantenendo però legami con le famiglie mafiose di Cirò e Cirò Marina. Le indagini hanno portato al sequestro di beni per un valore di circa 30 milioni di euro, rafforzando il sospetto che l’organizzazione stesse tentando di dominare l’economia locale attraverso l’acquisizione di imprese, immobili e veicoli.
Dal 2016, il processo è stato un continuo susseguirsi di accuse pesanti: estorsione, usura, truffa, bancarotta fraudolenta, traffico di droga e sfruttamento della prostituzione. Un’associazione a delinquere con l’obiettivo di mettere le mani sull’economia locale, con base a Ponte San Giovanni e collegamenti diretti con la Calabria.