Il tribunale di Perugia ha condannato a tre anni di reclusione un uomo di 67 anni ritenuto responsabile di una lunga serie di maltrattamenti perpetrati nei confronti della moglie e, in alcuni casi, anche della figlia. Gli episodi contestati, avvenuti tra il 2004 e il 2016, sono stati portati alla luce grazie al coraggio della vittima e alle testimonianze raccolte nel corso delle indagini, fondamentali per consentire alla Procura di ricostruire in modo dettagliato la gravità e la sistematicità degli abusi.
Secondo la ricostruzione dell’accusa, le condotte dell’imputato non sarebbero state episodi isolati, ma parte di un vero e proprio schema di violenza sistematica, "ripetuta nel tempo e gravemente lesiva della dignità della persona e dei principi della convivenza familiare". La Procura ha contestato all’uomo una lunga serie di comportamenti lesivi: percosse, minacce - anche mediante l’uso di una mazza da baseball - insulti quotidiani e atti sessuali privi di consenso ai danni della moglie.
Le violenze, secondo l’accusa, si sarebbero verificate anche in presenza della figlia minorenne, che in diversi casi ne sarebbe stata vittima diretta. Tra gli episodi riportati figurano aggressioni fisiche ripetute, con "calci e pugni su tutto il corpo ogni volta che la donna tentava di opporsi al suo volere", la costrizione a consegnare i propri guadagni sotto minaccia di nuove percosse e rapporti sessuali imposti con la forza. Anche la figlia sarebbe stata oggetto di gravi atti umilianti: testimoni hanno riferito che la minore veniva afferrata per una gamba e trascinata, che le sarebbe stata "immersa la testa nel water" o immersa in una vasca piena d’acqua come punizione per errori nei compiti scolastici.
La donna, dopo anni di violenze, ha trovato il coraggio di interrompere la convivenza e lasciare l’abitazione coniugale, avviando l’iter giudiziario con l’assistenza legale dell’avvocato Marco Marmottini. Fondamentali, per la ricostruzione della vicenda, sono state anche le testimonianze delle vicine di casa, che hanno confermato alle autorità le confidenze ricevute dalla vittima.
Il materiale probatorio raccolto dalla Procura ha sostenuto l’impostazione accusatoria relativa a "atti di prevaricazione, disprezzo e abuso" che, protratti per anni, hanno minato irrimediabilmente la serenità familiare e reso impossibile la convivenza. La decisione di denunciare è stata l’unica via per sottrarsi a una quotidianità segnata da paura e sopraffazione, proteggendo sé stessa e la figlia da ulteriori violenze.
Difeso dall’avvocato Chiara Casaglia, l’imputato è stato giudicato colpevole e condannato a tre anni di reclusione. La sentenza riflette la valutazione del giudice sui fatti contestati e sulle fonti di prova acquisite nel corso del procedimento. Le parti civili - madre e figlia - si erano costituite tramite l’avvocato Marmottini per chiedere il riconoscimento dei danni morali e patrimoniali subiti in conseguenza dei maltrattamenti.
Il dispositivo processuale e la pena applicata dovranno ora affrontare eventuali passaggi successivi: l’imputato, tramite la difesa, potrà valutare l’impugnazione della sentenza nelle sedi previste dal codice di procedura penale.
La vicenda, nella sua brutalità, riporta all’attenzione pubblica il tema dei maltrattamenti in ambito domestico e della loro persistenza quando il clima di sopraffazione resta nascosto dietro le mura domestiche. Le condotte contestate - che spaziano dalla violenza fisica a quella psicologica, fino all’abuso sessuale - sono esemplificative di come la coercizione e la paura possano protrarre per anni situazioni di grave danno personale e familiare.
Organismi di tutela e operatori sociali sottolineano l’importanza delle reti di vicinato, dei servizi territoriali e delle istituzioni nel favorire la fuoriuscita dalle relazioni violente. Anche in questo caso, la testimonianza delle vicine e il coraggio della donna nel denunciare hanno avuto un ruolo determinante nel porre fine al ciclo di violenza e nell’attivare la risposta giudiziaria.
Alla luce della sentenza, rimane aperta la questione del risarcimento per le parti civili, così come l’esigenza di attivare un percorso strutturato di supporto psicologico e sociale per madre e figlia. È compito delle istituzioni - dalle forze dell’ordine ai tribunali, fino ai servizi sociali - assicurare che le vittime ricevano protezione continua e strumenti concreti per ricostruire una vita serena e libera dalla violenza.
Questa vicenda rappresenta anche un monito per l’intera comunità: riconoscere tempestivamente i segnali di maltrattamento, offrire ascolto e sostegno, può fare la differenza tra il protrarsi di abusi e la possibilità di interrompere un dramma nascosto.