Un'accusa pesante, una vicenda giudiziaria delicata, e una conclusione che si è confermata in entrambi i gradi di giudizio. La Corte d’Appello di Perugia ha infatti confermato l’assoluzione già pronunciata in primo grado nei confronti di un uomo accusato di aver costretto una minore a subire atti contro la propria volontà. La giovane, all'epoca dei fatti sedicenne, aveva raccontato di essere stata avvicinata e condotta in auto dall’imputato. Secondo la sua versione, una volta raggiunta una zona isolata, l’uomo avrebbe chiuso le portiere e compiuto atti a sfondo sessuale.
Come riportato nel procedimento, “aveva affermato di essere stata costretta a subire atti sessuali all’interno della autovettura dell’imputato il quale l’aveva fatta salire a bordo della propria auto e dopo essersi allontanato in una zona isolata l’aveva chiusa all’interno della stessa e dopo averle tolto i pantaloni l’aveva costretta a praticargli un rapporto orale usandole violenza e minacciandola che se non lo avesse assecondato l’avrebbe percossa”.
Il nodo centrale della decisione risiede proprio nella valutazione dell’attendibilità della ricostruzione fornita dalla presunta vittima. I giudici hanno infatti rilevato significative incongruenze e passaggi giudicati poco realistici.
Uno dei punti contestati riguarda il momento in cui la ragazza avrebbe chiesto aiuto. Secondo la versione da lei fornita, sarebbe riuscita a chiamare il 112 mentre si trovava ancora nell’abitacolo: “ella era riuscita a prendere il proprio telefono dalla giacca e a chiamare il 112 e a scappare lasciando i propri vestiti nell’auto”.
Una dinamica che, secondo la Corte, non trova riscontro nei riscontri oggettivi. “Siffatta versione però non appariva realistica considerato che non erano stati riscontrati segni indicativi di detta violenza sul corpo della minore, che dal carteggio processuale si evinceva che la persona offesa aveva effettuato la telefonata al 112 non allorquando si trovava all’interno dell’autovettura dell’imputato, ma successivamente quando era fuori dalla stessa, tenuto conto che il divincolarsi della stessa dalla morsa dall’imputato che stava esercitando una certa energia per costringerla a rimanere in auto non poteva richiedere pochi secondi come dalla stessa dichiarato”.
Altra circostanza ritenuta poco credibile riguarda l’atteggiamento dell’imputato durante il presunto episodio. La giovane aveva dichiarato che, mentre tentava di chiedere soccorso, l’uomo non si sarebbe minimamente fermato. Nel verbale è riportato che “mentre la vittima provava a chiamare aiuto”, l’imputato “non si fosse minimamente scomposto, ma avesse continuato a porre in essere atti di violenza su di essa”. Anche questo elemento, secondo i magistrati, alimenta dubbi sulla veridicità complessiva del racconto.
Nelle motivazioni alla base della sentenza, la Corte di Appello ha evidenziato come vi siano elementi sufficienti a ipotizzare una ricostruzione dei fatti diversa rispetto a quella sostenuta dalla parte civile. L'analisi del materiale investigativo e delle dichiarazioni raccolte nel corso del procedimento ha infatti suggerito che la chiamata al numero d’emergenza 112 non sarebbe avvenuta nel momento stesso in cui si sarebbero svolti i fatti denunciati, bensì in una fase successiva, quando la giovane si trovava ormai all’esterno del veicolo.
"La dinamica descritta dalla parte civile risultava connotata da elementi di dubbia veridicità mentre emergevano fondate ragioni per ipotizzare che fosse stata proprio la stessa vittima una volta scesa dalla macchina dell’imputato a chiamare il 112 mentre si disfaceva dei vestiti e delle scarpe buttando altresì il cellulare poco lontano dal luogo ove era avvenuta la presunta violenza”, si legge nel dispositivo della sentenza.
Alla luce di tali considerazioni, i giudici hanno ritenuto non credibile la versione fornita dalla persona offesa e hanno ritenuto insussistenti gli elementi probatori a carico dell’imputato. La decisione è stata pertanto quella di confermare l’assoluzione con formula piena, già stabilita in primo grado. L’uomo non è stato ritenuto responsabile dei fatti contestati, in ragione dell’“assoluta insufficienza degli elementi di accusa” e di un racconto ritenuto “di dubbia veridicità della dinamica dei fatti”.