C'era un film di Nanni Moretti col quale siamo cresciuti noi boomer. Si chiamava Ecce Bombo e aveva dentro una scena tra le più iconiche del cinema italiano della fine degli anni ’70, quella della telefonata sulla festa.
"Che dici vengo? Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? Vengo. Vengo e mi metto così, vicino a una finestra di profilo in controluce, voi mi fate: “Michele vieni in là con noi dai…” e io: “andate, andate, vi raggiungo dopo…”. Vengo! Ci vediamo là. No, non mi va, non vengo, no".
Secondo qualcuno sarebbero un po' gli stessi dubbi della governatrice dell’Umbria, Stefania Proietti, sul consiglio comunale aperto di lunedì a Terni sul nuovo ospedale. Dubbi che avrebbe manifestato alla Terza commissione consiliare dell’Assemblea legislativa. Che ieri ha avuto notizia dell’incarico diretto da 25 mila euro conferito dal direttore generale dell’Azienda ospedaliera Casciari allo studio Binini & Partners di Reggio Emilia, per studiare le alternative urbanistiche per il nuovo ospedale ternano.
Insomma, se la governatrice parteciperà all’assemblea pubblica della BCT (inizio ore 9.30 di lunedì 13 ottobre, conclusione alle 15) lo si saprà solo all’ultimo. L’Aventino scelto dal centrosinistra contro il sindaco Bandecchi è la ragione per la quale nel Patto Avanti spingono perché Stefania Proietti diserti il consiglio. Parecchi dei suggeritori ternani hanno anche soffiato sulla paura dell’“agguato politico”. Dall’altro lato ci sono considerazioni istituzionali: il consiglio rappresenta l’intera città, non partecipare (dopo aver fatto rinviare due volte la seduta e averci messo in mezzo anche la “parata” politica di Cardeto in estate) suonerebbe come uno sgarbo dagli esiti tafazziani. La presidente dell’assemblea, Sara Francescangeli di AP, è ottimista: “Non ho ricevuto comunicazioni di segno diverso, per me vale la parola data. E non ci sono state nemmeno richieste di videoconferenza.”
Lo studio urbanistico commissionato a Binini & Partners dalla direzione ospedaliera e dalla Regione Umbria segna una novità che darà i suoi frutti a dicembre, dopo un anno intero di tira e molla (sia il centrosinistra sia il centrodestra sono divisi al loro interno sulla collocazione del nuovo nosocomio) e di inazione. I parametri adottati dalle direzioni regionali e indicati dall’assessore De Rebotti - finanziari, funzionali, sanitari, più accessibilità, viabilità, trasporto pubblico e qualità ambientale - si candidano a plasmare la nuova sanità ternana.
Ma tra le assunzioni che dovranno portare alla scelta politica definitiva non figura (o almeno non è stata esplicitata nelle comunicazioni ufficiali) la voce strategica dell’integrazione funzionale con la Facoltà di Medicina e Chirurgia.
Se Terni vuole davvero rappresentare un polo di eccellenza e attrazione nel panorama sanitario nazionale, ogni decisione sul nuovo ospedale dovrà partire da un presupposto: l’integrazione fra DEA di secondo livello e Facoltà di Medicina. Va ricordato, infatti, che l’ospedale ternano opera come Azienda autonoma e Dipartimento di Emergenza-Urgenza e Accettazione in deroga alla normativa nazionale, che impone un bacino di utenza di almeno 600 mila utenti. Nel dibattito sulla collocazione territoriale, dunque, bypassare il tema del rapporto ospedale-università sarebbe rischioso.
Al di là degli oltre 15 milioni di euro spesi per la sede di Medicina a Colle Obito (inaugurata nel 2012), va considerato che la collaborazione tra Università degli Studi di Perugia e Azienda ospedaliera Santa Maria ha dimostrato negli anni capacità e risultati. La sede ternana ha saputo garantire non solo la formazione teorica ma la piena immersione pratica degli studenti.
Con effetti positivi evidenti:
Attrazione di nuovi studenti e futuri medici sul territorio, grazie alla possibilità di vivere ogni giorno la realtà clinica e specialistica di un DEA di secondo livello.
Sperimentazione clinica e ricerca, facilitata dalla sinergia dei reparti e dalla multidisciplinarità garantita dall’integrazione.
Didattica avanzata, con lezioni, laboratori e attività pratiche in un contesto ospedaliero all’avanguardia, che ha reso Terni un polo appetibile anche fuori regione.
Se si vorrà delocalizzare, dunque, discutere di che fine farà l’integrazione con Medicina non è più un’opzione, ma una necessità strategica e di sistema.
Sul tavolo delle ipotesi per il nuovo ospedale prende forma l’eventualità di una delocalizzazione in zone decentrate, a cominciare da Maratta. Una soluzione che, se non ponderata nel quadro di una strategia integrata, potrebbe produrre effetti opposti alle intenzioni dichiarate di rilancio.
Gli studenti e i giovani medici sarebbero costretti ad affrontare tragitti di decine di minuti tra la sede universitaria e il nuovo ospedale, con collegamenti carenti sul piano del trasporto pubblico e infrastrutture non all’altezza delle esigenze didattiche e cliniche.
Si creerebbe un pendolarismo forzato, che sottrarrebbe tempo e risorse all’esperienza formativa, allontanando la sede di Medicina dal cuore pulsante dell’attività clinica e specialistica.
Il rischio concreto è che la competitività della sede ternana si riduca in modo critico: perdere la sinergia diretta tra Università e Ospedale significa perdere appeal per gli aspiranti medici e futuri professionisti sanitari, ma anche mettere a rischio il ruolo di DEA di secondo livello e l’autonomia dell’Azienda, a tutto vantaggio di chi a Perugia vorrebbe un’azienda unica regionale.
Il paradosso, confermato dai dati e dalle proiezioni, è che una delocalizzazione poco integrata non produce “mobilità attiva” verso Terni, ma spalanca la porta al fenomeno opposto. “È concreto il rischio che la disconnessione tra didattica e clinica alimenti la fuga delle migliori generazioni verso sedi meglio integrate come il polo reatino della Sapienza o l’area viterbese, oggi in forte espansione”, avverte un docente universitario che chiede di mantenere l’anonimato.
L’Umbria - responsabilità condivisa da tutti gli schieramenti maggioritari - ha perso almeno dieci anni di potenziale sviluppo del polo sanitario ternano, con conseguenze tangibili sull’attrattività sanitaria in regione e nel centro Italia.
La progressiva obsolescenza dell’Azienda ospedaliera Santa Maria e la mancanza di una strategia condivisa nella politica locale hanno contribuito a determinare un arretramento che pesa sulla competitività territoriale. Il ritardo ternano si confronta oggi con poli come Rieti e Viterbo, già protagonisti di investimenti strutturali e organizzativi che li hanno resi modelli di riferimento per mobilità sanitaria ed efficienza.
Altro che attrazione della mobilità passiva dall’Alto Lazio e dall’area vasta del Sud dell’Umbria: il territorio rischia di cedere terreno ai magneti delle città limitrofe, a detrimento anche dell’alta specializzazione del Silvestrini di Perugia. Basti pensare che da Terni e comprensorio limitrofo si può raggiungere il San Camillo de Lellis di Rieti in meno di 40 minuti e il nuovo Santa Rosa Belcolle di Viterbo in meno di 50 minuti.
Si tratta di due presidi ospedalieri competitivi per ragioni diverse. Rieti, dove c’è già dal 2021 lo studio di fattibilità del nuovo ospedale da 440 posti, è diventata sede universitaria della Facoltà decentrata di Medicina e Chirurgia de La Sapienza di Roma. Quindi la qualità del servizio medico-scientifico è destinata a incrementarsi e a diventare attrattiva.
L’ospedale di Viterbo, invece, si è dotato di una nuova torre chirurgica moderna ed evoluta, direttamente collegata con il blocco operatorio e in linea con gli standard qualitativi, assistenziali e tecnologici delle più moderne strutture ospedaliere a livello nazionale. L’apertura del corpo A3, inoltre, consente di applicare quanto contenuto nella programmazione della Regione Lazio per il triennio 2024/26, che prevede un incremento di posti letto ordinari per l’ospedale Santa Rosa, dagli attuali 326 utilizzati a un totale di 455.
Un pericolo, quello di diventare terreno di conquista dei budget sanitari della mobilità, da evitare a tutti i costi.