Se chiudete gli occhi e lasciate che sia la musica a guidarvi, l’Umbria saprà raccontarvi una storia intensa, fatta di suoni che affondano le radici nella terra e si elevano fino al cielo. Una terra apparentemente quieta, ma che vibra – da secoli – al ritmo di voci straordinarie, strumenti d’anima e visioni sonore capaci di attraversare i confini regionali per arrivare ben oltre.
Camminando tra le sue colline, attraversando i vicoli dei borghi antichi o assistendo a un concerto sotto le stelle, vi accorgerete che questa regione ha saputo parlare al mondo anche attraverso la musica. E non solo con i grandi festival – come Umbria Jazz o il Festival dei Due Mondi – ma soprattutto con i suoi interpreti: cantanti, musicisti, compositori che, pur partendo da paesi silenziosi e piazze di provincia, hanno inciso dischi, calcato palcoscenici internazionali, lasciato un’impronta profonda nel cuore di chi ascolta. In queste storie non troverete soltanto talento e tecnica, ma un legame autentico con il territorio: melodie che sanno di tramonti tra gli ulivi, liriche ispirate al respiro dei boschi, note che portano con sé l’eco del passato e il coraggio di reinventare il futuro.
Seguiteci allora in questo viaggio sonoro. Non solo per scoprire i volti noti e meno noti che hanno segnato il panorama musicale, ma per lasciarvi sorprendere da un’Umbria che canta, che suona, che racconta la propria anima anche attraverso ogni singola vibrazione.
C'è un filo invisibile, ma potentissimo, che lega l’Umbria alla grande musica d’Europa. Un filo intessuto di sacralità, invenzione e visione. Ed è lungo questo filo che si muove Antonio Maria Abbatini, nato a Città di Castello nel 1595, figura straordinaria e ancora troppo poco celebrata del panorama musicale barocco.
Compositore prolifico, innovatore instancabile e autentico ponte tra la tradizione e la modernità del Seicento, Abbatini fu molto più che un semplice maestro di cappella. Fu un architetto del suono. Le sue composizioni – tra cui messe, salmi, mottetti e opere teatrali – rivelano una sensibilità profonda, capace di unire la severità della polifonia rinascimentale all’emozione drammatica della nuova musica barocca.
Formatosi in un’epoca di fervore artistico e spirituale, operò nelle grandi basiliche di Roma – da San Giovanni in Laterano a Santa Maria Maggiore – e ad Orvieto, ma non smise mai di portare con sé l’essenza della sua terra natale: quell’Umbria sobria e meditativa che traspare in ogni suo pentagramma. La sua musica è un dialogo costante tra la luce mistica delle origini e la teatralità del mondo che cambiava.
Fu anche teorico e intellettuale di spessore, impegnato nella riflessione sul significato stesso del comporre. Collaborò con Athanasius Kircher alla monumentale Musurgia Universalis, portando il pensiero musicale umbro in una dimensione enciclopedica e continentale. Ma Abbatini non fu solo arte sacra. Seppe anche esplorare i territori del melodramma, firmando nel 1654 Dal Male il Bene, una delle prime opere comiche italiane, con un linguaggio audace, teatrale e innovativo, che anticipava suggestioni che si sarebbero poi imposte nel secolo successivo.
Se c'è una voce che incarna davvero il cuore profondo dell’Umbria, quella è senza dubbio quella di Lucilla Galeazzi. Originaria della Valnerina, cresciuta tra le pieghe silenziose della tradizione orale e i ritmi arcaici dei canti contadini, Lucilla non ha semplicemente cantato la sua terra: l’ha interpretata, reinventata, portata per mano sulle scene internazionali con un’energia rara e contagiosa. Dagli anni Settanta in poi, la sua è stata una missione tanto artistica quanto culturale.
Inizia con la riscoperta del repertorio popolare umbro – le ninnananne, i canti di lavoro, le filastrocche, le “cantate” della tradizione – per poi proseguire lungo un percorso fatto di collaborazioni eccellenti, come quella con Giovanna Marini, che ha segnato l’inizio di una lunga e appassionata carriera internazionale.
Ma Lucilla non si è mai fermata alla pura riproposizione del passato. Il suo è un approccio vivo, dinamico, sempre in movimento. Ha saputo intrecciare la forza del folk con i linguaggi del teatro musicale, della canzone d’autore, del jazz e persino della musica barocca, grazie a progetti di grande respiro come quelli con L’Arpeggiata. La sua voce, intensa e profondamente espressiva, ha calcato i palchi d’Europa, del Medio Oriente, delle Americhe, portando con sé ogni volta un pezzo d’Umbria, raccontata in musica con orgoglio e poesia.
Cantante, attrice, autrice e anche formatrice, oggi Lucilla è un punto di riferimento assoluto per chiunque voglia avvicinarsi al mondo del canto popolare in chiave contemporanea. I suoi laboratori, i suoi spettacoli e i suoi dischi sono una porta d’accesso a un mondo antico che lei rende ogni volta nuovo, vibrante, necessario.
Quando si parla dei Fast Animals and Slow Kids, non ci si riferisce solo a una band: si parla di un’urgenza creativa, di un grido che parte dal cuore dell’Umbria e arriva a scuotere palchi, coscienze e generazioni. Nati a Perugia nel 2008, i FASK – come li chiamano affettuosamente i fan – sono il simbolo di una provincia che, invece di restare ai margini del fermento musicale nazionale, ha deciso di urlare forte la propria presenza, trasformando inquietudine e autenticità in arte sonora.
Composti da Aimone Romizi (voce), Alessandro Guercini (chitarra), Jacopo Gigliotti (basso) e Alessio Mingoli (batteria), i FASK sono l’esempio tangibile di come si possa partire da una sala prove nel cuore verde d’Italia e diventare una delle realtà più potenti e sincere dell’indie-rock italiano contemporaneo. Le loro canzoni non cercano scorciatoie: sono fragili e furiose, intime e collettive, ferite e vitali. Parole che bruciano, suoni che spingono, ritornelli che sembrano urla condivise da un’intera generazione.
Dal primo album, “Cavalli” (2011), fino al recentissimo “Hotel Esistenza” (2024), i FASK hanno tracciato un percorso coerente, in costante evoluzione, che ha sempre mantenuto saldo il legame con le proprie radici umbre. Ogni disco è un frammento esistenziale: “Alaska” è il gelo emotivo che diventa catarsi, “Forse non è la felicità” è un pugno allo stomaco e una carezza alla volta, mentre “È già domani” segna l’apertura a nuove sperimentazioni, senza mai perdere la forza primigenia del rock che li ha resi celebri.
La loro forza non sta solo nella musica, ma nella narrazione. I FASK raccontano il disagio, la provincia, la paura di crescere, l’amore sbagliato, il bisogno di essere ascoltati. E lo fanno senza filtri, con un linguaggio crudo ma mai superficiale, capace di entrare sottopelle. Hanno cantato l’ansia, la malinconia, l’inadeguatezza – ma sempre con una voce che è anche speranza, resilienza, voglia di esistere e di lasciare un segno. Il loro legame con l’Umbria è visceralmente presente: non solo come luogo geografico, ma come luogo dell’anima. Nei loro testi si respira quella provincia che può soffocarti o salvarti, quel silenzio che può diventare introspezione o tormento, e quella solitudine creativa che diventa urlo collettivo.
Non è un caso che dai piccoli club siano arrivati a riempire i teatri e i festival più importanti, suonando al fianco di nomi come Ligabue, Willie Peyote, e portando la loro musica anche oltre i confini nazionali. Con sette album all’attivo, tour sold-out e un pubblico trasversale e fidelissimo, i FASK sono oggi una voce indispensabile nel panorama musicale italiano.
Eppure, non hanno mai rinnegato le origini. Anzi: le rivendicano. Il loro è un orgoglio umbro che non si veste di provincialismo, ma di autenticità. Sono partiti da Perugia, certo. Ma sono arrivati dove l’urgenza di dire qualcosa di vero ha trovato orecchie pronte ad ascoltare.