S'intitola 'Per il mio bene' e si preannuncia come un piccolo capolavoro. Un film che venerdì 7 alle 21 marzo sarà al centro di una serata speciale organizzata da Sentieri del Cinema al Cinema Politeama Lucioli di Terni. Per l'occasione sarà presente in sala il regista Mimmo Verdesca, due volte Nastro d'argento, che con quest'opera segna il passaggio dal documentario alla fiction.
Verdesca autore di pluripremiati documentari, approda con 'Per il mio bene' al suo primo film di finzione indagando con delicatezza e attenzione il tema della maternità. Prodotto da Rodeo Drive con Rai Cinema, racconta una storia al femminile così come quasi interamente al femminile (fatta eccezione per Leo Gullotta) è anche lo straordinario cast della pellicola.
Barbora Bobulova Stefania Sandrelli, Sara Ciocca e soprattutto Marie-Christine Barrault, attrice francese che ha scritto la storia del cinema lavorando con registi come Rohmer, Allen, Schlöndorff e Zanussi, candidata all’Oscar nel 1975 e che qui ci regala una interpretazione sublime e struggente.
Ne abbiamo parlato meglio con Maria Rita Fedrizzi, l'anima di Sentieri del Cinema, che sta organizzando l'evento in collaborazione con il Politeama.
Ospitare in sala il regista di un film così intenso è una grande occasione per toccare da vicino la magia del cinema. Cosa ti ha spinto a contattare Verdesca?
"Conoscevo Mimmo Verdesca per i documentari che ha realizzato, tutti dedicati alla storia del cinema italiano e ai suoi protagonisti: Alida Valli, Lilia Silvi, Vittorio De Sica e con loro gli attori-bambini che nel tempo sono diventati volti iconici del nostro panorama cinematografico e che ci sono rimasti impressi nella memoria e nel cuore. Mi avevano colpito per il loro essere racconti intriganti ed unici, vibranti, capaci di coinvolgere tutti, non solo i cinefili ma anche chi, le storie racchiuse dietro certe pellicole o fra le pieghe della vita artistica di un attore, non le conosce.
Nello sguardo di Mimmo su quelle pagine così luminose della storia del cinema italiano non ho ma ravvisato nessuna pedanteria biografica, nessuna stucchevolezza. Non si ferma mai, la sua narrazione, alle date, ai nomi, ai titoli più rappresentativi di una filmografia, ma prova sempre a raccontare qualcosa di altro e diverso rispetto a ciò che appare in superficie e che si vede sullo schermo. Qualcosa che attiene alla sfera più intima ed emozionale di un individuo e che finisce col rendere quelle vite per certi versi così eccezionali, simili alle nostre, con analoghi dolori, paure, amori, sussulti, cadute.
Per questo è, a mio avviso, riduttivo definirli documentari. Pur puntualissimi nella ricostruzione storica, sono anzitutto dei racconti emozionali, sinceri, appassionati, capaci, in virtù di questo, di farci amare ancora di più l’arte cinematografica".
Per lui, appunto, è il primo film di finzione, dopo che per anni si è dedicato al documentario. Che impressione hai avuto vedendo questo film? Quanto c’è del linguaggio del documentario?
"Quando, lo scorso dicembre, ho avuto modo di vedere il primo film di finzione di Mimmo, 'Per il mio bene' ancora una volta mi sono imbattuta in una capacità di racconto che emoziona ed appassiona come poche. E’ stato naturale per me invitarlo a venire a parlarci del suo film e gli sono molto grata per aver accolto il nostro invito.
'Per il mio bene' è un’opera capace di scavare a fondo nelle pieghe meno raccontate di un tema spesso edulcorato e banalizzato come quello della maternità e in quello, altrettanto poco esplorato, delle adozioni e del quadro normativo che le regola.
È anche qualcosa di più, però. Questo film affronta una storia unica ed eccezionale, almeno in apparenza, ma all’interno di questa si aprono poi altre storie, altre schegge di vita ed esperienze in cui tutti ci possiamo riconoscere. È un film che parla anche delle maschere sotto cui ci nascondiamo e ci proteggiamo tanto dagli altri quanto da noi stessi, della fortuna di essere amati dalla nostra famiglia e della gratitudine di averla, di quanto sia importante, per ciascuno di noi, avere un luogo in cui riconoscere le nostre radici, di tutte quelle fragilità che ci sono accanto, ogni giorno, e accanto alle quali il più delle volte passiamo distrattamente e della nostra, di fragilità.
Una vulnerabilità che in una società iper-competitiva come quella in cui viviamo, che ci vuole tutti invincibili ed altamente performanti, suona quasi come un’eresia, una moneta fuori corso, una lingua scomparsa. La fragilità, sembra suggerirci questo film, aiuta a scoprire davvero chi siamo. Ci porta dentro l’Io, ma non nel buio dell’indifferenza, quanto nella luce della condivisione. È anche un film che racconta il potere salvifico della riconciliazione, di un abbraccio, di uno sguardo e di un sorriso che ci faccia sentire accolti, compresi, accettati, anche per e non nonostante i nostri limiti. E che si interroga sul senso ultimo e profondo del perdono".
Nel cast ci sono interpreti straordinarie e c’è anche anche una grandissima attrice, la Barrault, che ha lavorato con alcuni dei più grandi maestri del cinema. Tu come definiresti questo film?
"Marie-Christine Barrault in questo film è straordinaria, intensa, magnetica - un ossimoro bellissimo, tenendo conto che la sua Anna è una creatura scontrosa, respingente, di pochissime parole. Ha un animo trafitto, la madre che è chiamata ad interpretare, talmente trafitto da renderla incapace di affrontare il quotidiano, quasi che la sua vita e tutti i suoi pensieri non abbiano mai smesso di ruotare attorno a quell’evento sconvolgente che tanti anni prima ha segnato così duramente la sua esistenza, destabilizzandola dal di dentro.
Ma la bellezza e la forza di questo film, ciò che lo rende così tanto emozionante, è che narra anche la storia di una duplice rinascita. E’ un percorso doloroso, perché richiede di scontrarsi con il non senso, con l’assurdo, con la perdita di ciò che si ha di più caro al mondo e che rischia di spezzare per sempre l’esperienza dell’amore e della stabilità, ma è anche un percorso al termine del quale si può tornare a vivere, ritrovare la luce nello sguardo e fare nuovamente esperienza di senso.
Sottolineavi giustamente le interpretazioni femminili. Permettimi però di menzionare anche Leo Gullotta, qui in un ruolo drammatico. 'Per il mio bene' è un film in cui questo grande attore si allontana dai moduli interpretativi che gli hanno regalato la popolarità, rivelandosi ritrattista potente, capace di designare con grande incisività un tipo di uomo come ce ne sono tanti, all’apparenza oneste persone, in realtà piccolo pescecani che si approfittano della fragilità e della solitudine dei più deboli".