Si è aperto con il suono delle campane e l’incenso che sale lento nella navata il primo atto ufficiale della Festa dei Ceri. Un momento di raccoglimento, di tensione silenziosa e di fede profonda: la messa nella Basilica di Sant’Ubaldo, officiata dal cappellano dell’Università dei Muratori, Don Mirco Orsini, ha dato il via al tempo ceraiolo con parole dense di significato spirituale e identitario.
“Questo è un anno Giubilare” – ha detto nell’omelia Don Mirco – “che ci porta in pellegrinaggio verso Dio e anche verso il nostro Sant’Ubaldo. Ma attenzione: i Ceri non possono lasciarci come ci hanno trovato. Sennò non è festa. Devono cambiare qualcosa in noi.” Un invito alla trasformazione interiore, alla riscoperta non solo della tradizione ma del suo significato profondo.
Nel tempio sul Monte Ingino, dove riposano incorrotte le spoglie del patrono eugubino, si respira un’aria che mescola la devozione alla storia, il presente al mito. È qui che i Ceri vengono custoditi per un anno intero, dal termine della corsa del 15 maggio fino alla prima domenica di maggio dell’anno successivo, ed è da qui che parte la loro discesa verso la città: il primo passo concreto verso la festa.
Subito dopo la funzione, è iniziato il rituale della rimozione dei Ceri dai piedistalli. È un gesto carico di silenzioso rispetto, svolto con precisione e attenzione da mani esperte e cuori emozionati. I protagonisti dell’operazione sono le figure simboliche della festa: il Primo e Secondo Capitano, Fabio Latini e Oliviero Baldelli, insieme ai tre Capodieci: Giuseppe Piccioloni per Sant’Ubaldo, Giuliano Baldelli per San Giorgio e Mattia Martinelli per Sant’Antonio.
Atto primo: la rimozione dai piedistalli. Atto secondo: il congedo dalla basilica. I Ceri vengono portati fuori smontati, le strutture lignee appoggiate con cura, i volti attenti e composti. La festa, che sarà esplosione di corsa e di sudore, nasce qui, nella compostezza di un gesto rituale. Un gesto che sancisce la fine del tempo del riposo e l’inizio del tempo dell’attesa attiva.
Usciti dalla basilica, i Ceri vengono trasportati a spalla e in posizione orizzontale, lungo gli stradoni del monte Ingino, in un corteo che è metà processione e metà marcia festante. A passo d’uomo, lentamente, in silenzio o tra canti sommessi, la comunità scende verso la città.
È il primo bagno di folla ceraiola, quello che libera le emozioni represse per mesi, quello che fa dire agli eugubini: “è cominciata davvero”. Giovani, anziani e bambini affollano il percorso, molti dei più piccoli vengono caricati sui Ceri, fiori in mano, come in un passaggio generazionale silenzioso e potente.
Stavolta non si corre: si cammina, come in un pellegrinaggio collettivo, per accompagnare i simboli sacri e civili della città fino alla loro nuova temporanea dimora: la Sala dell’Arengo del Palazzo dei Consoli, dove rimarranno fino al 15 maggio.
Questa discesa è una sospensione temporale, una soglia. La città si prepara al 15 maggio come a un ritorno della propria anima. Per molti, la Festa dei Ceri è “un anno per un giorno”: tutto ruota intorno a quel momento in cui il presente si fonde con la leggenda, con la memoria di famiglia, con la fede in un’identità collettiva che resiste ai secoli.
I Ceri sono simboli: religiosi, sì, ma anche laici, civili, comunitari. Dal 1973 sono il simbolo ufficiale della Regione Umbria, stilizzati nel gonfalone e nella bandiera, ma la loro forza simbolica risale a molto prima. Alcuni storici li collegano alle antiche processioni pagane in onore delle divinità della natura, poi cristianizzate nel culto di Sant’Ubaldo, vescovo guerriero e protettore della città.
La destinazione dei Ceri, in questi giorni che precedono la festa, è altamente simbolica: la Sala dell’Arengo del Palazzo dei Consoli. Non un luogo qualsiasi, ma il cuore politico, civile e culturale della Gubbio comunale. Qui si riunivano i boni homines, i rappresentanti delle arti e delle famiglie, in epoca medievale, per decidere sulla vita collettiva della città.
Non è un caso che proprio lì i Ceri vengano custoditi in questi giorni: tra il sacro del monte e il profano della piazza, nel luogo in cui la comunità si riflette, si governa, si racconta. Una liturgia laica che completa quella religiosa. Una memoria di ciò che la città è stata e continua a essere.
Il rito è compiuto. Si intonano le note strugenti dell'Inno di Sant'Ubaldo. La messa ha tracciato il solco spirituale. La discesa ha unito le generazioni. Ora la città si stringe attorno ai Ceri come a un cuore pulsante che batte piano, per poi esplodere tra pochi giorni nel ritmo travolgente della corsa.
“Non si corre oggi” – ripetono in molti lungo la discesa – “ma si sente già tutto”. E in effetti si sente: la tensione, la gioia, l’orgoglio, la nostalgia. I Ceri non sono oggetti: sono presenze, incarnazioni visibili di un popolo che ancora crede nel valore della tradizione, non come prigione, ma come promessa.
E il cammino continua, lentamente, verso quel giorno che ogni eugubino porta nel cuore come una seconda data di nascita: il 15 maggio, festa di Sant’Ubaldo, quando la città si riempirà di voci, di suoni, di lacrime e di corse. E tutto sarà compiuto.