La crescia di Gubbio non è solo una pietanza, ma un frammento vivente di storia e spiritualità. La sua origine risale a oltre 3.000 anni fa, quando gli Antichi Umbri e, successivamente, gli Etruschi impastavano semplici pagnotte di cereali e le cuocevano su lastre di pietra arroventate, le antenate dei moderni “testi”.
Già intorno al 1900 a.C., nel territorio che oggi circonda Gubbio, si preparavano focacce rituali che avevano un valore ben diverso dal semplice nutrimento: erano offerte sacre. Lo testimoniano le Tavole Eugubine, sette lamine bronzee incise in lingua umbra che rappresentano una delle più importanti testimonianze religiose e linguistiche dell’Italia preromana. In esse si fa riferimento a cerimonie nelle quali si offrivano “torte mefa”, focacce votive destinate agli dei, cucinate con farine pure e acqua consacrata.

Queste antiche “crescie sacre” avevano una funzione magico-religiosa: ogni gesto, dall’impasto alla cottura, faceva parte di un rituale collettivo che univa la comunità nella preghiera e nel ringraziamento alle divinità della fertilità e del raccolto. Ecco perché, come ricordano alcuni studiosi locali, non basta rifare oggi quei cibi senza conoscere i riti in cui erano inseriti né la loro funzione nel culto umbro ed etrusco: la vera crescia affonda le sue radici nella sacralità del cibo come linguaggio tra uomo e divino.
Nel corso dei secoli, la crescia ha perso il suo carattere rituale per diventare il pane quotidiano delle famiglie contadine eugubine. Preparata con ingredienti poveri — farina, acqua, sale, lievito e un filo d’olio (quando c'era...) — rappresentava la sopravvivenza e l’ingegno di chi viveva in un ambiente montano, dove le risorse erano limitate ma la volontà di condividere non mancava mai.
Durante le lunghe giornate nei campi, la crescia accompagnava i contadini come un pasto pratico e sostanzioso. Veniva cotta sul “testo”, una lastra di pietra o di ferro riscaldata sul fuoco, lo stesso metodo usato dagli Umbri più di duemila anni prima. Il “testo” — o come lo chiamano a Gubbio, il “panaro” — dava alla crescia il suo tipico profumo affumicato e la crosta dorata. Perché sopra il panaro di pietra, la crescia veniva ricoperta da cenere calda.
Questa preparazione si distingue dalla più nota torta al testo perugina per essere più sottile, croccante e rotonda, con un gusto deciso che la rende ideale per accompagnare salumi, formaggi, erbe cotte di orto e di campo, o piatti a base di tartufo.

Nel tempo, la crescia è diventata il piatto identitario di Gubbio, simbolo di una tradizione che resiste al mutare dei secoli. In ogni casa eugubina, specialmente nelle campagne, non manca mai il ricordo di una nonna o di una madre che impastava la crescia la domenica mattina o nei giorni di festa.
Attorno a quel disco dorato di farina e acqua si raccoglieva la famiglia, si raccontavano storie e si condividevano affetti. In questo senso, la crescia non è solo un cibo: è un rito familiare, un’eredità culturale che parla di unione, di memoria e di appartenenza.
Proprio per questo, il Comune di Gubbio ha voluto tutelarla conferendole la Denominazione Comunale d’Origine (De.Co.), riconoscendo ufficialmente la sua importanza storica e gastronomica. Oggi la De.Co. garantisce che la crescia venga prodotta secondo i metodi tradizionali e con ingredienti genuini, mantenendo intatto il legame tra cibo, territorio e comunità.
Oggi la crescia di Gubbio continua ad essere protagonista assoluta nelle sagre e nei ristoranti della zona, ma anche sulle tavole delle famiglie. Viene farcita con salumi locali, come il prosciutto crudo o la coppa, accompagnata da formaggi freschi o stagionati, e talvolta servita con uova e tartufo nero, il “diamante della terra” tipico dell’Appennino umbro.
Non mancano le versioni gourmet, con abbinamenti più moderni come erbe spontanee, miele, ricotta o verdure di stagione, ma la sua anima resta contadina, autentica e conviviale.

Ogni morso della crescia racconta la storia di un popolo e di una terra che ha saputo mantenere viva la propria identità pur attraversando millenni di trasformazioni. È il simbolo di un sapere antico, dove il gesto di impastare con le mani e cuocere sul fuoco non è solo cucina, ma un atto di memoria e continuità.
Nei giorni di lavoro nei campi, quando le stoviglie erano un lusso, la crescia serviva da base su cui venivano adagiate le pietanze che si aveva la fortuna di cucinare: un po’ di carne o cacciagione se il raccolto era stato buono, oppure carne secca, erbe campestri, cipolle o cicoria, crude o cotte.
Era, in senso letterale, il piatto e il pane insieme, un simbolo perfetto di economia contadina e di rispetto per ogni briciola di cibo.