Francobaldo Chiocci è nato a Gubbio nel 1931 e vanta una lunghissima carriera di inviato speciale. È il padre di Gian Marco Chiocci, attuale direttore del TG1. A 93 anni ha ancora la lucidità di un ventenne e ricorda alla perfezione gli episodi sua vita di inviato speciale de Il Tempo.

Lo incontriamo nella sua casa a Piazza Grande nel nobiliare Palazzo dei marchesi Ranghiasci-Brancaleoni famiglia alla quale apparteneva la madre, ma anche la famiglia Chiocci ha antiche origini nobili.

Ci mostra un mappamondo sul quale sono stati appuntati più di cento spilli dalla capocchia rossa  che stanno a indicare tutti i posti del mondo nei quali lo ha condotto il suo lavoro di inviato speciale.

Francobaldo Chiocci l’inizio della carriera di inviato speciale

Francobaldo, quando e come è iniziata la tua carriera di inviato speciale?

“Sono diventato inviato speciale dopo aver fatto una breve gavetta da cronista per merito di un episodio avvenuto a Gubbio. Andavo spesso a giocare a tennis nella casa di un console inglese di origine italiana che si chiamava Galletti ed era stato anche console in India. Alla fine di ogni partita il diplomatico, da bravo inglese, mi offriva il the“.

Durante questo rito era presente un personaggio compassato che mi rivelò di essere il medico del Mostro di Londra, John Reginald Christie un serial killer che uccise molte ragazze tra le quali la moglie e una bambina a causa della sua impotenza che non voleva fosse rivelata. Feci subito l’intervista al medico e la mandai alla Nazione che fece uscire una edizione straordinaria.  Il Tempo non si fidò di me perché allora ero troppo giovane e mandò un inviato, il celebre giornalista Igor Man che accertò la veridicità della mia intervista e in seguito a questo mi nominarono corrispondente”.

La sua carriera inizia a “Il Tempo” di Roma

In seguito hai continuato la carriera a Roma…

“Sì nel 1956 andai a Roma a Il Tempo a sostituire un redattore che era andato in ferie. Feci per un breve periodo il cronista poi il direttore di allora Renato Angiolillo, fondatore del giornale, apprezzò il mio modo di scrivere e scommise su di me. Negli anni Sessanta in Italia vi fu la campagna contro la fame in India, perché il Papa, in accordo con U-Thant segretario dell’Onu, aveva stabilito che gli indiani morivano di fame e bisognava aiutarli, una cosa che si rivelò una follia.

Angiolillo che era di origini napoletane, mi convocò e mi disse: ‘Guaglio’, tu domani vai in India’.

Gli risposi che parlavo male l’inglese e che la mia cultura dell’Oriente era ferma a Sandokan.

Lui si tolse il monocolo e mi disse: ‘Guaglio’ ricordati una cosa: a ciascuno le sue specifiche incompetenze’.

Che sembrerebbe un paradosso ma invece è una ricetta giornalistica perché gli incompetenti in un mondo di specializzati vedono le cose con modestia e non danno per scontato che gli altri sappiano quello che tu sai”.

La fame in India e le avventure in Oriente

E come fu la tua avventura in India?

“Andai in India con un milione di lire  in tasca, una cifra che fino allora non avevo mai visto e mi presentai all’ambasciatore italiano che si espresse con severità: ‘Ma in Italia siete tutti quanti impazziti. Non è vero niente, In India è vero c’è gente che muore di fame ma da sempre’. Mi fece vedere un telegramma nel quale sconsigliava Quaroni, allora presidente della Rai che stava per arrivare con una nave carica di grano, di desistere”.

Qual era la tua attività in India in quel frangente?

“Ogni giorno, per riempire i giornali di notizie, si accordavano tra colleghi inviati in India sul numero di vittime giornaliere da diffondere a mezzo stampa. Tutti numeri inventati. Intanto Sergio Zavoli che noi avevamo battezzato ‘il commosso viaggiatore’ riprendeva con una troupe televisiva un paria che stava sotto una vacca che gli urinava addosso”.

Una situazione paradossale e tu come ti comportavi, scrivevi anche tu notizie inventate?

“Io scrivevo la verità a differenza degli altri giornalisti e Angiolillo lo apprezzò molto. E i fatti ci diedero poi ragione perché poco dopo Indira Ghandi rilasciò una intervista a un giornale inglese: ‘Il mondo si sta commovendo per la nostra situazione. Non è vero niente. Non chiediamo la carità a nessuno, anzi ci offende. Ci piacerebbe avere rapporti con l’Occidente ma rapporti normali’.  Vidi il terrore sulla faccia di miei colleghi inviati che poco dopo fecero i bagagli e ritornarono in patria. Io che aveva scritto la verità per Angiolillo diventai un dio, e da quel momento mi fece fare le cose più strane”.

“Nella terra degli ayatollah rischiai la vita”

C’è stata un’avventura che ti ha fatto temere il peggio. Mi spiego: nel tuo lavoro di inviato hai mai rischiato la vita?

“Durante la guerra tra Iran e Iraq rischiai la pelle. Venni mandato con un certo numero di inviati italiani a visitare la famigerata prigione di Evin vicino Teheran, dove venivano concentrati tutti i condannati a morte. Il personaggio che reggeva questa prigione era anche il Procuratore Generale islamico. Ci presentò questi condannati a morte che erano non altro che i mujaheddin del popolo, cioè comunisti, quindi espressione di un paese ateo come l’Unione Sovietica di allora. Questi mujaheddin ci dissero addirittura che era la loro condanna a morte era giusta, forse proprio per salvarsi la pelle”.

Il procuratore islamico e la “morte lieve”

Come si comportò con i giornalisti occidentali il Procuratore islamico?

“Il Procuratore affermò che mentre nei paesi occidentali si usavano metodi cruenti nelle esecuzioni, loro avevano adottato una ‘morte lieve’. In pratica ci rivelò che svenavano i condannati a morte. Estraevano loro il sangue che sarebbe servito per le trasfusioni ai feriti di guerra. Questa cosa mi fece tanto ribrezzo che quando il procuratore venne tra di noi a darci la mano io mi ritrassi evitando di toccarlo, tanto era lo schifo che mi provocava”.

Il pasdaran che era la mia guida e il mio controllore fin da Roma, si accorse di questo mio atteggiamento e mi rivolse uno sguardo d’odio, tanto che io temetti il peggio. Tuttavia gli spiegai che sull’aereo che ci avrebbe portato in Iran gli avevo già chiarito che la nostra indole ci portava a rispettare anche un gatto che ci attraversava la strada e che avrebbe dovuto rispettare questo nostro punto di vista. La faccenda si concluse lì e non ebbe più seguito”.

Con l’amico Francobaldo abbiamo toccato altri argomenti come le avventure al fronte tra Iran e Iraq e la vicenda dei Boat People dopo la guerra del Vietnam ma ve ne parlerò in un’altra occasione. Francobaldo, per la lunga carriera giornalistica, è stato al centro di numerose avventure in ogni parte del mondo. Avventure che meritano di essere raccontate.