Dopo “Io e il Secco” torna il grande cinema contemporaneo aI Politeama Lucioli di Terni. Martedì 25 giugno infatti si terrà la proiezione speciale del film “Il mio posto è qui”, diretto da Cristiano Bortone e Daniela Porto. L’evento è organizzato in collaborazione con Sentieri del Cinema, Casa Delle Donne – Terni e Il Pettirosso – Terni. Si inizierà alle ore 21.00 con un’introduzione a cura di Sentieri del Cinema, a cui seguirà la visione del film.
Dopo “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi, anche “Il mio posto è qui” ci fa tornare a quel Dopoguerra così rivoluzionario e fondamentale per la nostra storia recente. Tra emancipazione femminile, omofobia e amicizia si snoda la vita dei protagonisti in una piccola città della Calabria. Un luogo così intriso di cultura patriarcale e mascolinità tossica da sembrarci lontana anni luce e che, invece, è più vicino di quanto sembri.
Maria Rita Fedrizzi, storica del cinema, ci ha parlato in esclusiva dell’importanza di questo film proprio per capire alcune dinamiche che ancora oggi impregnano – spesso in modo interiorizzato – la nostra società.
Intervista a Maria Rita Fedrizzi su “Il mio posto è qui”: un ponte tra ieri, oggi e domani
Ambientato nel 1946 in un piccolo paese calabrese, “Il mio posto è qui” racconta la toccante storia di Marta e Lorenzo. Marta (Ludovica Martino, Skam) è una ragazza madre promessa in sposa a un uomo che non ama. Lorenzo (Marco Leonardi, Nuovo Cinema Paradiso), un omosessuale conosciuto come “l’organizzatore dei matrimoni”. La loro improbabile amicizia li porta a sfidare i pregiudizi e a lottare per il loro posto nel mondo. Insieme, Marta e Lorenzo si trasformano reciprocamente. Marta trova il coraggio di rivendicare la propria libertà e indipendenza, scoprendo una passione per la lettura e la scrittura, simbolo del suo futuro. Lorenzo, grazie a Marta, ritrova la forza di affermare se stesso nella sua comunità.
“Il mio posto è qui” è ambientato in un periodo cruciale per l’Italia, quel dopoguerra che abbiamo visto recentemente anche nel film di Paola Cortellesi. Oltre al contesto storico, ci sono altri punti di incontro tra le due opere?
Entrambi i film hanno per protagoniste delle donne ostaggio di una cultura patriarcale onnipervasiva. Che permea anche le menti dei più giovani e insospettabili e che alle donne chiede soltanto di essere buone mogli, brave madri. Di rimanere al proprio posto e soprattutto di stare zitte. La violenza, più fisica nel film della Cortellesi, più psicologica ne Il mio posto è qui, viene tratteggiata come parte integrante del tessuto sociale di quel periodo. Un’espressione di controllo e autorità – da parte del marito o del padre – su tutti i membri della famiglia, accettata per lo più passivamente.
Sono però anche dei film che elevano le vite delle loro protagoniste a simbolo dell’incessante e indomabile lavorìo che da sempre le donne hanno dovuto compiere per salvarsi e sollevarsi da questa oppressione, da questa spirale di violenza anche economica. Per trovare un proprio spazio nel mondo. Film che ci raccontano di donne che lottano e resistono. Di un atto di ribellione, di insubordinazione, della possibilità e della volontà delle donne di coltivare un sogno di riscatto. Entrambi inoltre sono anche un grandissimo tributo ad un momento iconico per la Storia italiana. Quel 1946 in cui le donne furono finalmente chiamate alle urne per decidere se l’Italia dovesse rimanere una monarchia o diventare una Repubblica. Solo pochi anni prima, in pieno regime fascista, quest’eventualità era una chimera.
Il film tratta tematiche come l’emancipazione femminile e i diritti LGBTQ+. Come pensa che queste tematiche risuonino nel pubblico contemporaneo, considerata l’attuale discussione su parità di genere e diritti civili?
Come accade nel film, ancora oggi certi uomini sono agenti ma anche vittime del sistema patriarcale, in cui stereotipi e ruoli di genere sono cristallizzati nella mascolinità tossica e nel machismo. Vittime lo sono però anche e soprattutto le donne, che non sempre hanno la possibilità economica o emotiva di uscire fuori da queste dinamiche di violenza.
Ancora oggi, come racconta il film, chi sta intorno può però fare molto. Da spettatori, essere posti di fronte al coraggio e alla caparbietà di cui dà prova Marta nel proprio cammino di emancipazione e autodeterminazione, e al sostegno, alla iniezione di fiducia che le viene da un’altra donna – Bianca, che organizza un corso per insegnare alle ragazze a dattilografare e dunque, in prospettiva, ad emanciparsi economicamente – può rappresentare una spinta per alimentare il coraggio delle donne e spronarle a seguire le orme di queste due loro sorelle di un tempo. Anziché rimanere sommerse dalla polvere di una vita che le spegne poco a poco.
C’è poi il personaggio magnifico di Lorenzo, l’aiutante del parroco. Un uomo gentile e generoso, colto e raffinato, che con Marta condivide il dolore per essere stato discriminato, insultato ed emarginato (lui per il suo orientamento sessuale). Un uomo con una grandissima propensione all’ascolto. L’unico in tutto il film capace di ergersi al fianco di Marta, per fermare il ciclo di possesso, dolore, umiliazione di cui è vittima. Attraverso di lui il film credo arrivi a interpellare nel profondo gli uomini di oggi, chiedendo loro da che parte vogliono stare. Vogliono ancora essere parte di questa cultura così ferocemente sessista o vogliono essere diversi e schierarsi accanto alle donne che la subiscono? Contribuire, con il loro essere ed agire, a riformulare un nuovo modello maschile?
Quella delle donne è, storicamente, una storia di costanza e tenacia, di forza e pazienza, di cui tutti gli uomini, come Lorenzo nel film, dovrebbero desiderare di farne parte, come scudieri di queste fantastiche forze della natura, attori pronti a restituire alle donne uno spazio vitale a lungo schiacciato. Lorenzo, a causa del suo orientamento sessuale, ha subito attacchi feroci e umiliazioni da più parti. Coloro che nel film hanno agito così verso di lui, hanno evidentemente ereditato da una cultura omofoba la convinzione che essere omosessuale fosse qualcosa di assolutamente sbagliato, innaturale e contrario alle norme del vivere comune.
Se oggi per fortuna atteggiamenti, pregiudizi e opinioni discriminatorie di questo tipo sono meno frequenti di un tempo, è pur vero che si riscontrano ancora casi di bullismo e di aggressioni ai danni di omosessuali e transessuali. E che ancora si leggono storie di giovani costretti, dalla propria famiglia, a lasciare casa e che non trovano servizi a cui rivolgersi.
Un altro tema che emerge dal film è poi quello della omofobia interiorizzata da parte degli stessi omosessuali (come il grande amore di Lorenzo, Enrico). Che non accettano la propria omosessualità perché causa in loro e nelle loro famiglie di origine di ansia, angoscia, tensione interiore, colpa e vergogna. Enrico, abdicando a se stesso, ha scelto di sposarsi con una donna, così da non sentirsi più un individuo isolato ed oppresso. Vedere questo film è anche interrogarsi su quanta strada dobbiamo ancora fare, singolarmente e come società, per sconfiggere per sempre l’omofobia. Una strada tanto più lunga quanto più questa si insinua nella nostra quotidianità il più delle volte senza fare rumore.
Il film si svolge in un piccolo paese della Calabria con una cultura molto tradizionalista. In che modo, secondo lei, la rappresentazione di questa realtà può far riflettere il pubblico sulla diversità culturale e sui cambiamenti sociali in Italia?
Il mio posto è qui parla a tutti mostrandoci un quotidiano di tanti anni fa, ma che è stata la normalità del nostro Paese per tanto tempo. Si pensi che fino a pochi decenni fa vigeva ancora l’attenuante del delitto d’onore, che riduceva la pena per l’omicidio della consorte in stato d’ira per un’offesa alla propria immagine. Attenuante non prevista per la controparte femminile, la quale rischiava l’ergastolo.
Il patriarcato, la mascolinità tossica di capifamiglia e uomini aggressivi e prepotenti, vessatori, incapaci tanto di comunicare quanto di avere un autentico e profondo scambio relazionale con i loro famigliari, ma anche il pregiudizio di cui sono oggetto gli omossessuali, così come emergono dal film, ci ricordano un cambiamento che negli ultimi anni è stato sì sensibile, ma che a conti fatti non è ancora completo né tantomeno sufficiente. L’eredità di questa cultura oscurantista e patriarcale mi sembra che non siamo ancora riusciti ad eliminarla del tutto. Visto che ogni giorno assistiamo a ondate di violenza domestica a dir poco inquietante, a maltrattamenti e stalking, quando non a femminicidi. E che tanti, troppi, purtroppo, sono ancora gli episodi di discriminazione a danno della comunità LGBTQ+.
Quali aspetti della situazione storica del 1946 crede siano stati meglio rappresentati nel film? E come queste rappresentazioni possono aiutare il pubblico a comprendere meglio quel periodo cruciale per l’Italia?
Il film ci racconta l’Italia dei piccoli centri urbani e rurali all’indomani della Seconda Guerra Mondiale: un Paese dove la povertà incalzava e l’istruzione non era accessibile a chiunque, specialmente alle donne. Era però anche la stagione in cui la comunità nazionale si congedava dalla guerra civile e dal fascismo e costruiva faticosamente il proprio futuro. Un momento carico di speranze, quindi, di attese, di illusioni, di sacrifici e di impegno collettivo.
Nel film, dunque, da una parte viene mostrata una società che, nei suoi strati più umili e memo scolarizzati non riesce a spostare il proprio orizzonte oltre il breve termine. Che spesso fatica addirittura a convivere con il quotidiano. Che si ferma alle apparenze e che non ha la capacità né la volontà di andare a fondo nelle questioni. E che manca tanto di capacità critica a monte quanto di volontà di implementazione a valle. Dall’altra però ci vengono mostrati anche uomini e donne – Marta e Lorenzo, certamente, ma anche Bianca e altri menti progressiste – che vanno riscoprendo la capacità di guardare ad un orizzonte di lungo termine. Che scoprono una vocazione per la conoscenza e per la cultura.
Il film ci racconta anche come quegli anni abbiano segnato una grande conquista per tutte le donne. Potevano votare e avrebbero potuto anche essere anche elette. Il diritto di voto e quello di diventare parte attiva nella storia politica, diventava sinonimo di autodeterminazione, ribellione, conquista. La loro condizione sarebbe cambiata radicalmente, in meglio, con la lotta attiva anche se ancora sussurrata, di tutte loro.
I personaggi di Marta e Lorenzo possono essere visti come simboli delle lotte odierne per i diritti umani e l’uguaglianza? Ci sono parallelismi specifici che pensa il pubblico dovrebbe cogliere?
Marta è una ragazza madre nella Calabria degli anni ‘40, la cui famiglia non vede l’ora di maritarla per lavare via – da lei, ma anche da se stessa – quella che all’epoca veniva considerata una vergogna, un’onta: avere e crescere un figlio fuori dal matrimonio. Anche Marta, almeno nella prima parte del film, sembra aver fatto proprio e introiettato questo giudizio su di sé e la propria maternità. L’amicizia con Lorenzo, “l’organizzatore di matrimoni”, cambierà tutto. Portandola a sfidare convenzioni patriarcali e ancestrali, pur di realizzare i propri sogni e dare espressione alla parte più autentica di sé.
Il matrimonio forzato è un fenomeno che ancora oggi attraversa trasversalmente Paesi, culture, religioni ed etnie. Inoltre povertà, insicurezza, accesso limitato all’istruzione e al lavoro fanno sì che un simile matrimonio, là dove ancora praticato, venga tuttora percepito dalle famiglie come una scelta vantaggiosa per le ragazze e/o come un modo per i genitori per mitigare le difficoltà economiche – proprio come accade nella famiglia di Marta. Questi matrimoni sono atti di prevaricazione gravissimi, perché negano alle più giovani ogni forma di libertà e autodeterminazione.
Marta è anche una ragazza con un livello di istruzione molto basso. Che non ha potuto proseguire gli studi a causa della precaria condizione economica in cui versava la sua famiglia. Per molto tempo, nel nostro Paese, le bambine e le ragazze sono state fortemente penalizzate e private dell’istruzione perché considerate più utili all’economia domestica e alla cura di fratelli e sorelle minori, specie in famiglie di basso reddito, che hanno continuato a investire nella scolarizzazione dei figli maschi molto più che in quella delle femmine. Nonostante l’educazione delle ragazze sia fondamentale per lo sviluppo delle stesse e per il progresso delle società e delle economie, le disparità di genere nell’istruzione persistono tutt’oggi, in molte parti del mondo.
Marta è però anche una donna che gradualmente riscopre il piacere della lettura e soprattutto il valore e l’importanza della conoscenza, dello studio, dell’apprendimento. Che arriva a giudicare tutto questo una risorsa inestimabile, per la quale vale la pena combattere e per la quale si possono anche versare lacrime di autentico e profondo dolore, se se ne viene privati contro la propria volontà. Io credo che il valore del film risieda anche in questo. Nel ricordarci come la cultura e il sapere possano migliorare noi stessi, le nostre relazioni, la nostra società, ed essere di grande aiuto nel contrastare la discriminazione, il bullismo, la violenza, anche quella virtuale, che oggi rovinano la vita di tanti giovani.