Ci sono storie che non si leggono sui libri, ma si scoprono solo scavando a fondo — con le mani nella terra, gli occhi impolverati e il cuore colmo di memoria. Storie che emergono piano, come bisbigli dalla profondità del tempo, e che solo chi sa ascoltare davvero riesce a riportare in superficie. L’Umbria, con la sua anima antica e i suoi silenzi densi di passato, non si è limitata a custodire civiltà sepolte: ha dato i natali a donne e uomini capaci di ridare voce a ciò che il tempo aveva tentato di zittire. Archeologi che, nati tra borghi in pietra e colline dove il tempo sembra essersi fermato, hanno saputo leggere il mondo con occhi nuovi e mani pazienti.
Figli di questa terra e, allo stesso tempo, instancabili viaggiatori nel tempo, hanno attraversato terre, decifrato frammenti, ricomposto identità dimenticate. In ogni scoperta, in ogni trincea di scavo, c’era sempre qualcosa che li riportava a casa: un frammento d’Umbria che riaffiorava tra le dita. L’amore per le radici, la cura paziente del dettaglio, il rispetto per i silenzi della storia: tutto questo li ha accompagnati ovunque. Questo viaggio è un omaggio a loro — agli archeologi umbri che, con passione, rigore e una straordinaria sensibilità, hanno fatto dell’archeologia non solo una scienza, ma una vera e propria poesia della materia, capace di ridare voce a ciò che credevamo perduto per sempre.
C'erano una volta, nella quieta Perugia dell’Ottocento, colline punteggiate di silenzi e tombe etrusche dimenticate, custodite dalla terra come antichi segreti in attesa di una voce capace di riportarle alla luce. Quella voce fu Ariodante Fabretti, figura cardine della cultura umbra e tra i più importanti archeologi della sua epoca. Nato nel 1816, Fabretti crebbe nutrendosi di filologia, epigrafia e passione civile, incarnando perfettamente l’intellettuale ottocentesco: erudito, visionario, e profondamente legato alle proprie radici.
Successore del celebre Giovan Battista Vermiglioli, a soli trent’anni Fabretti divenne professore di Archeologia e direttore dei Musei Civici di Perugia. Qui diede avvio a una sistematica catalogazione di epigrafi e reperti, un lavoro scrupoloso e appassionato che segnò l’inizio di una nuova consapevolezza storica nella regione, trasformando l’Umbria in un punto di riferimento imprescindibile per gli studi sull’Italia preromana.
La sua opera più celebre, il Corpus Inscriptionum Italicarum Antiquioris Aevi (1867), con successive integrazioni, resta ancora oggi un testo fondamentale per chiunque voglia addentrarsi nelle iscrizioni antiche italiane. Ma Fabretti non fu soltanto un grande studioso: la sua vita si intrecciò profondamente con la storia politica e sociale del suo tempo. Partecipò attivamente al Risorgimento, fu deputato nella Repubblica Romana, esule politico, accademico a Torino e senatore del Regno d’Italia, dimostrando che la passione per la conoscenza può camminare di pari passo con l’impegno civico.
Alla sua morte, nel 1894, volle che le sue ceneri tornassero a Perugia. La sua straordinaria biblioteca personale, con oltre 3.700 volumi, fu donata alla Biblioteca Augusta, diventando un simbolo tangibile di quel legame profondo e indissolubile con la sua terra, un’eredità preziosa che continua a illuminare il cammino degli studiosi umbri e italiani.
Nel cuore dell’Umbria, tra ripari rocciosi nascosti e pareti di pietra scolpite dal tempo, Tommaso Mattioli ha tracciato un ponte diretto tra noi e un’umanità lontana millenni. Ricercatore instancabile all’Università di Perugia negli anni Duemila, Mattioli non ha solo portato alla luce antiche pitture rupestri: ha restituito dignità e voce a un gesto primordiale, quello dell’uomo che lascia il segno, che racconta, che cerca di affermare la propria esistenza attraverso l’arte.
Il suo percorso di ricerca lo ha condotto in luoghi emblematici come il Riparo di Pale, a Foligno, dove figure antropomorfe dipinte in ocra rossa emergono da un passato che si perde tra Neolitico ed Età del Rame, datate oltre 5.500 anni fa. Queste immagini, pur lontane nel tempo, conservano un’intensa vitalità e sembrano sussurrare racconti di miti, rituali e di un legame profondo con la natura e l’acqua. A Ferentillo, nel suggestivo Riparo delle Mummie, Mattioli ha documentato pitture e incisioni in cui si percepisce la mano attenta di chi sapeva trasformare la roccia in un linguaggio sacro e simbolico, testimoni di un mondo antico e complesso. Non meno importanti sono le scoperte al Riparo dello Schioppo a Scheggino, dove forme antropomorfe e motivi a spirale raccontano di una cultura preistorica ricca di simboli, di connessioni spirituali e di una sensibilità artistica sorprendente per quell’epoca.
Grazie alla meticolosità di Mattioli, queste testimonianze non sono più solo segni misteriosi su una parete di pietra, ma pezzi vivi di un puzzle che collega le valli umbre alle rotte dell’arte rupestre in tutta Europa. Le sue analisi hanno svelato come questi spazi fossero crocevia di culture e scambi, un patrimonio di memoria e identità che ancora oggi affascina studiosi e appassionati. L'importante volume L’arte rupestre in Italia centrale. Umbria, Lazio, Abruzzo (2007) sintetizza questo percorso di ricerca, portandoci a conoscere dieci siti preziosi e a comprendere l’intensità comunicativa di segni e simboli, in una narrazione che è al tempo stesso scientifica e poetica.
Tommaso Mattioli ci regala così una straordinaria testimonianza: l’Umbria non è solo terra di storia visibile, ma anche custode silenziosa di un linguaggio primordiale. E grazie al suo lavoro, possiamo finalmente ascoltare quel gesto antico, il segno di un uomo che, con la pietra e il colore, ha voluto raccontare la sua storia al futuro.
David Soren, archeologo statunitense originario del Montana, ha segnato una tappa fondamentale nello studio della storia della salute umana attraverso un’eccezionale scoperta in Umbria. Tra il 1987 e il 1991, durante gli scavi nel cimitero tardo-romano di Lugnano in Teverina, Soren e il suo team misero in luce un sito straordinario: una necropoli dedicata a bambini e feti, testimonianza drammatica di un’epoca segnata da crisi e sofferenza.
Ciò che rende questo luogo particolarmente straordinario non è solo la quantità o la tipologia delle sepolture, ma soprattutto le pratiche rituali inconsuete che vi sono state rinvenute. Tra gli oggetti deposti accanto ai corpicini, spiccano piccoli dettagli inquietanti e suggestivi: cuccioli di cane decapitati, artigli di corvo e rospi, probabilmente utilizzati come amuleti per scacciare gli spiriti maligni. Questi gesti rituali sembrano raccontare la risposta collettiva di una comunità travolta da un evento traumatico, quasi certamente un’epidemia.
Il punto di svolta è arrivato con l’analisi del DNA estratto dalle ossa dei piccoli defunti. Per la prima volta, è stato identificato il materiale genetico del Plasmodium falciparum, il parassita responsabile della forma più letale di malaria, in resti umani così antichi. Questa scoperta ha inaugurato una nuova era nella comprensione delle malattie nel mondo antico, offrendo la prima prova archeologica della presenza della malaria in Europa oltre 1.500 anni fa.
Le conseguenze di questa rivelazione sono immense: non solo ci hanno fatto ripensare il rapporto tra ambiente, demografia e salute nel passato umbro, ma hanno anche gettato luce sull’importanza delle credenze popolari e delle pratiche rituali nella gestione delle epidemie. David Soren, pioniere dell’archeogenetica, ha così contribuito a svelare aspetti nascosti della storia sanitaria e sociale dell’Umbria, valorizzando un patrimonio archeologico che racconta molto più di quanto la pietra e l’osso possano dire da soli.