“Io ho avuto l’onore di essere eletta vostra #sindaca, la prima donna a ricoprire questo ruolo nella nostra città” è quanto dichiara e ricorda, con grande orgoglio e forte senso di commozione, Vittoria Ferdinandi, neo sindaca di Perugia dopo le elezioni amministrative di giugno scorso.
“Fin dalla mia campagna elettorale, ho usato il termine sindaca – scrive Ferdinandi in un post sui suoi canali social – e sono certa che su questa battaglia contro un ddl barbaro non ci risparmieremo”. La prima cittadina del capoluogo umbro si scaglia, senza se e senza ma, contro il disegno di legge del senatore leghista Manfredi Potente. Il ddl in questione punta a vietare l’uso del genere femminile applicato ai titoli istituzionali e professionali.
“Continuerò a farmi chiamare sindaca – ribadisce, quindi, Vittoria pubblicando la fotografia della targa sulla porta del suo ufficio a Palazzo dei Priori – la lingua italiana ci permette di declinare titoli e professioni al femminile e non vedo il motivo per cui non continuare a usare tutte le varianti”.
Ferdinandi “Passi indietro sulla parità di genere”
“È fatto divieto del genere femminile”. Così si legge nel disegno di legge del senatore leghista Manfredi Potente, che vuole vietare l’uso del femminile per i titoli istituzionali e professionali” afferma la sindaca di Perugia Vittoria Ferdinandi.
“Vogliono cancellare la nostra identità e farci fare dieci passi indietro nella lotta per la parità di genere – prosegue – Intanto la Lega ha preso le distanze da questa proposta di legge retrograda e ridicola. Si impegni a ritirarla immediatamente. Sarebbe meglio che tutti e tutte, al di là del colore politico, fossimo impegnate e impegnati nella lotta alla disparità e violenza di genere“.
Intanto, da fonti interne alla Lega si apprende che la proposta di legge del senatore Manfredi Potenti sarebbe “un’iniziativa del tutto personale”. I vertici del partito, infatti, a partire dal capogruppo al Senato Massimiliano Romeo, non condividono quanto riportato nel ddl Potenti il cui testo “non rispecchia in alcun modo la linea della Lega che ne ha già chiesto il ritiro immediato”.
Cosa dice il ddl leghista incriminato
Il ddl leghista proposto dal senatore Manfredi Potente all’articolo 2 recita che “in qualsiasi atto o documento emanato da Enti pubblici o da altri enti finanziati con fondi pubblici o comunque destinati alla pubblica utilità, è fatto divieto del genere femminile per neologismi applicati ai titoli istituzionali dello Stato, ai gradi militari, ai titoli professionali, alle onorificenze, ed agli incarichi individuati da atti aventi forza di legge“.
Il successivo articolo 3 pone il “divieto del ricorso discrezionale al femminile o sovraesteso od a qualsiasi sperimentazione linguistica“, ricordando che “è ammesso l’uso della doppia forma od il maschile universale, da intendersi in senso neutro e senza alcuna connotazione sessista”.
Nel finale articolo 4, relativo alle sanzioni, invece si legge come “la violazione degli obblighi di cui alla presente legge comporta l’applicazione di una sanzione pecuniaria amministrativa consistente nel pagamento di una somma da 1.000 a 5.000 euro“.
Il progetto normativo, intitolato “Disposizioni per la tutela della lingua italiana, rispetto alle differenze di genere“, ha, dunque, l’obiettivo dichiarato di “preservare l’integrità della lingua italiana ed in particolare, evitare l’impropria modificazione dei titoli pubblici dai tentativi ‘simbolici’ di adattarne la loro definizione alle diverse sensibilità del tempo”.
La premessa del ddl leghista
Nella premessa del disegno di legge in oggetto, il senatore toscano Manfredi Potente (Lega) racconta come l’università di Trento abbia introdotto l’utilizzo del cosiddetto “femminile sovraesteso” per le cariche e i riferimenti di genere, ovvero “che i termini femminili usati si riferiscono a tutte le persone”.
Ciò può causare, secondo il senatore Potente, delle assurdità lessicali: “ad esempio, si è utilizzato ‘rettrice’ anche per l’incarico di rettore rivestito da un uomo”. Inoltre, il membro del Carroccio riflette sul rischio di trovarsi di fronte a “personalismi non invocati dall’ordinamento il quale correttamente deve pretendere che gli aspetti privati di chi esercita funzioni pubbliche rimangano accantonati. Una decisione assunta da una ‘sindaca’ potrebbe essere addirittura impugnabile poiché non prevista dal nostro ordinamento”.