Vi siete mai chiesti cosa si cela dietro l’immagine più nota dell’Umbria, quella dei borghi famosi e delle mete già scritte su ogni guida? C’è un’altra Umbria, segreta e sorprendente, che attende solo di essere scoperta: fatta di mete quasi dimenticate, sentieri che si perdono tra boschi secolari, antiche pievi che custodiscono storie di pellegrini e di santi, angoli di mondo in cui il tempo sembra essersi fermato.
In questo viaggio vi condurremo lontano dalla folla e dai ritmi affrettati, lungo percorsi che profumano di autenticità. Scoprirete panorami che cambiano con la luce del giorno, piazzette silenziose dove il vento racconta leggende, sorgenti e colline che nascondono tradizioni mai sopite. Qui, ogni pietra ha una voce, ogni strada una memoria, ogni sguardo una rivelazione. Non si tratta solo di visitare nuovi luoghi, ma di riscoprire il piacere della lentezza, di fermarsi, ascoltare e lasciarsi sorprendere. L’Umbria vi accoglierà con la sua discrezione, rivelandovi i suoi tesori più intimi: quelli che non si trovano sulle mappe più battute, ma nel cuore di chi sa ancora guardare con occhi curiosi.
C'è un luogo, nel cuore di Foligno, dove l’arte sfida il tempo e la logica, e dove il silenzio diventa parte integrante dell’esperienza. È l’ex Chiesa della Santissima Trinità in Annunziata, oggi custode di una delle opere più enigmatiche e monumentali dell’arte contemporanea: La Calamita Cosmica di Gino De Dominicis. Appena si varca la soglia, lo sguardo è catturato da una presenza che non lascia indifferenti: un immenso scheletro antropomorfo lungo ventiquattro metri, supino, immobile eppure carico di un’energia che sembra vibrare nell’aria. Il dettaglio che più colpisce è quel becco d’uccello che sostituisce il naso, un elemento ironico e perturbante che scardina ogni certezza anatomica e introduce il visitatore in un'altra dimensione, sospesa tra mito, sogno e inquietudine.
Ogni osso è definito con una precisione quasi ossessiva, eppure l’insieme sembra sfuggire a una spiegazione razionale. È un corpo che non appartiene a nessuna epoca, e forse nemmeno a questa terra. E poi c’è quell’asta dorata che spunta dalla punta del dito medio: sottile, luminosa, misteriosa. È da lì che nasce il nome Calamita Cosmica, come se quell’asta fosse un ago che cuce il visibile e l’invisibile, un ponte tra la materia e l’infinito.
La storia di quest’opera è tanto enigmatica quanto la sua forma. Creata negli anni Ottanta, viaggiò per l’Europa esponendosi in luoghi carichi di storia e prestigio - da Napoli a Versailles, da Roma al Belgio - prima di trovare casa definitiva a Foligno. E qui, nel 2011, è stata accolta non in un museo tradizionale, ma in uno spazio sacro riconvertito, dove le sue ossa dialogano con gli archi, le volte e la luce morbida che filtra dalle finestre alte.
Visitare la Calamita Cosmica non significa solo osservarla. È un percorso: dal piano terra, dove la sua imponenza vi avvolge, al camminamento sospeso che permette di scrutarla dall’alto, come se foste parte di un rito laico, un pellegrinaggio nell’inspiegabile. Vi ritrovate a chiedervi: è un monito? Un gioco? Un tentativo di spiegare l’universo attraverso la forma di un corpo che non esiste? Forse il segreto è proprio questo: non dare risposte, ma creare domande. E così, uscendo dalla navata, ci si accorge che la Calamita Cosmica non è solo un’opera da vedere, ma una presenza che resta, che attrae, che vi segue anche quando ve ne siete andati.
Varcare la soglia della cripta sotto la chiesa di Santo Stefano, nel cuore di Ferentillo, significa scendere in un mondo sospeso, dove il tempo non scorre ma resta intatto, imprigionato in un silenzio antico. La pietra umida sotto i piedi, la luce soffusa che filtra appena tra le feritoie e quel leggero odore di terra e memoria: ogni dettaglio prepara lo spirito a un incontro che è insieme storia, scienza e mistero. È qui che viene custodita una delle raccolte più singolari d’Europa: corpi mummificati naturalmente, risalenti a epoche diverse fino al XIX secolo, rimasti intatti grazie a una combinazione unica di fattori ambientali - una microflora particolare, la ventilazione costante, la composizione del suolo. Non furono imbalsamati, non vi fu mano umana a fermare il loro tempo: fu la terra stessa a custodirli, come se li avesse voluti proteggere da ogni dissoluzione.
La scoperta avvenne all’inizio dell’Ottocento, quando un editto napoleonico impose di rimuovere le sepolture all’interno dei centri abitati. Scavando, gli abitanti si trovarono di fronte a volti, corpi, storie che non si erano mai del tutto spenti: vestiti ancora riconoscibili, barbe, capelli, mani che sembravano pronte a riaprirsi. Oggi, lungo i 24 metri della cripta, si possono osservare ventiquattro corpi, dieci teste, centinaia di teschi, persino due volatili mummificati - testimonianza di un tempo in cui la vita e la morte convivevano nello stesso spazio sacro.
Ogni figura racconta un frammento di vita: il soldato ferito, la donna contadina con i segni del lavoro sul volto, il bambino che sembra dormire, l’avvocato avvolto nella sua bara sigillata. Alcuni sembrano invocare, altri abbracciare, altri ancora gridare nel silenzio eterno. Non c’è spettacolo, non c’è macabro compiacimento: c’è la suggestione di ciò che resta, l’eco di un respiro che il tempo non ha cancellato.
La scienza ci spiega come tutto ciò sia possibile: silicati, solfati, nitrati, microorganismi che hanno agito come custodi invisibili. Ma la scienza da sola non basta a raccontare la sensazione che si prova camminando tra quelle teche: è come sfogliare un libro scritto nella carne, un archivio naturale di vite e di epoche. Visitare il Museo delle Mummie di Ferentillo non è soltanto un’esperienza culturale, è un attraversamento. Si entra con curiosità, si procede con rispetto, si esce con una domanda sottile che accompagna per tutta la strada di ritorno: quanto resta di noi, quando il tempo decide di ricordarci?
C'è un angolo dell’Umbria dove la realtà smette di avere confini netti e si fa teatro di visioni, simboli e misteri. Questo luogo è La Scarzuola, un complesso che unisce sacralità antica e genialità moderna, sospeso tra la memoria di San Francesco e l’estro visionario di un architetto fuori dal tempo.
Qui, secondo la tradizione, San Francesco edificò una modesta capanna di scarza - una pianta palustre - lasciando un’impronta di spiritualità semplice e autentica. Secoli dopo, nel 1956, Tomaso Buzzi rilevò questo lembo di terra e lo trasformò in ciò che lui stesso definì la sua “città ideale”, un viaggio architettonico e mentale fatto di scale che non portano da nessuna parte, teatri miniaturizzati, torri, labirinti e simboli esoterici disseminati come briciole di pane nel bosco.
La Scarzuola non si visita: si attraversa come si attraversa un sogno. Ogni tappa - dalla Torre di Babele al Teatro delle Api, dalla Scala dell’Iniziazione alla Bocca di Giona, fino alla Grande Madre - è una tappa di un percorso interiore, un invito a perdersi per potersi ritrovare. Le architetture non cercano la perfezione: volutamente sproporzionate, talvolta incompiute, sono come enigmi lasciati a metà per stimolare l’immaginazione.
Buzzi non costruì un semplice complesso, ma mise in scena una rappresentazione dell’esistenza: il sacro e il profano convivono, il reale sfuma nell’onirico, la pietra diventa simbolo, teatro, alchimia. Dopo la sua morte nel 1981, il nipote Marco Solari ha continuato a custodirne la visione, lasciando che la Scarzuola rimanesse un’opera aperta, mai del tutto finita, e forse proprio per questo viva.
Visitare questo luogo è come leggere un libro scritto a più mani: ogni persona vi trova una storia diversa, un messaggio celato tra le ombre dei cipressi, un’eco che risuona nel silenzio delle scale sospese. Non è un museo, non è un monumento: è un viaggio interiore, che comincia varcando il suo cancello e prosegue molto dopo averlo lasciato.