A Terni, gli operai della Faurecia (gruppo Forvia) rientrano in agitazione. Dopo una cinquantina di uscite incentivate, che hanno alleggerito l’organico ma non le tensioni, torna lo spettro della cassa integrazione. Il malessere corre tra i reparti, tra chi teme che la ristrutturazione servita a "snellire" la fabbrica sia in realtà la prima tappa verso una lenta dismissione. Il clima è quello di un'attesa carica d'inquietudine, mentre la sensazione che la fabbrica venga svuotata pezzo dopo pezzo non è più solo un sospetto ma una percezione quotidiana.
Venerdì 28 marzo, mentre in tutta Italia i metalmeccanici scendono in piazza per il contratto nazionale, a Terni si accenderanno i riflettori su una vertenza che da mesi serpeggia tra i cancelli della zona industriale. Alle 10, davanti alla sede di Confindustria, i lavoratori della Faurecia faranno sentire la propria voce. Non sarà una passerella, ma una manifestazione determinata, con in mano le richieste rimaste troppo a lungo inascoltate. Al centro, il futuro di una fabbrica che rischia di svuotarsi nel silenzio, senza una direzione, senza una risposta, senza una prospettiva.
Secondo quanto riportano le sigle sindacali, l’azienda starebbe prendendo in considerazione l’ipotesi di riattivare la cassa ordinaria, nonostante gli obiettivi della recente ristrutturazione siano stati centrati. Una decisione che, senza un piano industriale concreto né l’avvio di nuove commesse, rischia di lasciare a piedi decine di famiglie. La prospettiva di tornare in cassa, peraltro, si profila come l’ennesimo tappabuchi privo di visione. Il timore è che, una volta esaurita anche quest’ultima risorsa, i lavoratori si ritrovino di fronte al vuoto. Nessun investimento, nessuna svolta. Solo l’attesa, sempre più snervante, che qualcosa cambi mentre tutto sembra fermo.
La catena di montaggio continua a girare, ma senza nuove traiettorie. Al momento, le attività si reggono su commesse già avviate, con Iveco che tiene in piedi la baracca e Ferrari che impegna appena una quindicina di lavoratori su un totale di 250. Il resto è fatto di attese, silenzi e porte chiuse. Nessun segnale, da parte dell’azienda, che lasci presagire un cambio di passo. Nessuna apertura su progetti inediti, né sulle proposte di diversificare la produzione con tecnologie più in linea con la transizione industriale. I sindacati denunciano uno stallo strategico, aggravato dal fatto che l’azienda pare essersi chiamata fuori da qualsiasi prospettiva legata alla mobilità a basso impatto. Perfino l’idea di puntare sull’idrogeno, con una filiera già potenzialmente radicata sul territorio umbro, è rimasta lettera morta. Intanto, i volumi calano, i margini si assottigliano, e la fabbrica si avvia sempre più a diventare un deposito di ricambi per modelli in dismissione. Un destino che preoccupa chi, ogni giorno, attraversa quei cancelli con in tasca più dubbi che certezze.
"La riorganizzazione – chiedono oggi Rsu e Fiom Cgil di Terni – serviva ad affrontare anni difficili per poi rilanciarsi, oppure è stata solo l’inizio di una scelta più radicale e decisiva?" La sensazione, tra chi lavora nello stabilimento, è che la direzione intrapresa non sia più quella del rilancio ma della progressiva riduzione. I rappresentanti dei lavoratori sono pronti a chiedere un confronto ufficiale con l’azienda per ottenere rassicurazioni precise sul piano industriale, anche attraverso segnali tangibili come il rinnovo del contratto di locazione del capannone che ospita la sede ternana dello stabilimento.
Un atto simbolico ma concreto, che potrebbe rappresentare un impegno verso la permanenza del sito produttivo in città. A preoccupare maggiormente è il fatto che l’azienda, almeno per ora, sembri rimandare ogni intervento strutturale al 2027, lasciando il sito in una sorta di limbo operativo senza visione di rilancio a breve termine. Nel frattempo, i sindacati sollecitano un’accelerazione nei tempi del confronto, mettendo sul tavolo anche la necessità di una riconversione produttiva coerente con la transizione ecologica del settore.