Come ogni anno, il 31 marzo ricorre la giornata della visibilità dedicata alla Comunità Trans. Una ricorrenza meglio conosciuta con la sigla “TDoV”, acronimo inglese che sta per “transgender day of visibility”.
Si tratta di un appuntamento annuale tanto importante quanto necessario per i membri della comunità T perché proprio dalla visibilità dipende la qualità della vita e, spesso, l’esistenza stessa delle persone transessuali. La visibilità così concepita non è fama, bensì possibilità di vivere fuori dall’ombra. “Se tu mi vedi, io esisto. Se lo Stato in cui vivo mi vede, può tutelarmi” è il claim di quest’edizione. Ce ne ha parlato in esclusiva a Tag24 Umbria, fornendoci la sua preziosa testimonianza, Francesco: ragazzo transgender di 25 anni originario di Perugia, cui la nostra redazione vuole garantire l’anonimato.
Francesco, prova a raccontarci la tua storia.
“Fin da quando ero piccolo, ho sempre provato una sensazione di disagio rispetto ad alcune parti del mio corpo. Più o meno avevo tra gli 8 e i 10 anni. Non accettavo come la società si rapportava a me. Ad esempio, io amavo giocare a calcetto nel piazzale davanti alla scuola prima di entrare, ma i miei compagni di classe mi facevano notare che era uno sport da maschi, mentre io ero una femmina. Eppure io detestavo tutto ciò che ruotava attorno all’universo femminile, a cominciare delle bambole. Piuttosto rubavo le macchinine a mio fratello maggiore“.
Oltre alle tue passioni, cos’altro ti faceva sentire ‘sbagliato’?
“Innanzitutto il mio aspetto fisico. Andavo spesso a tagliare i capelli per portarli quanto più corti possibile, anche per praticità oltre che per estetica, visto che praticavo basket e facevo scout. Gli adulti mi scambiavano per un bambino, e i miei genitori ne rimanevano quasi mortificati. Io invece ero contento. Ricordo che in prima media volevo acquistare degli abiti nel reparto maschile e mio padre me lo vietava. Diceva che dovevo vestirmi da signorina, curare la mia immagine, truccarmi. Ho tuttora una felpa storica, gigante, tutta grigia che prendevo di nascosto dall’armadio di mio fratello, alla quale rimango molto affezionato“.
Com’è proseguita la tua crescita?
“Il disagio che avevo conosciuto in età infantile, durante l’adolescenza non ha fatto altro che aumentare. Con la pubertà ho maturato un disturbo del comportamento alimentare, sfogavo il mio malessere attraverso il cibo. Prima con dei fenomeni sporadici di abbuffate, i cosiddetti binge eating. Poi sviluppando una grave bulimia. Ma in famiglia non si sono mai accorti di nulla. Fingevo di stare bene. Nel frattempo, mi facevo del male, perché stavo male“.
Ti riferisci a episodi di autolesionismo?
“Non solo, mi è successo di essere ricoverato in ospedale per overdose da farmaci. Sono finito nel reparto di psichiatria di diverse cliniche. Mi facevano sentire sbagliato, contro natura, e io ne stavo per uscire pazzo. Il percorso di psicoterapia mi ha sicuramente aiutato ad acquisire consapevolezza della mia identità di genere. Il momento di svolta, però, si è verificato quando al centro per disturbi alimentari che frequentavo venne a trovarci un ospite speciale. Un regista di teatro transgender, Liv. Assistevo ai suoi spettacoli sulla disforia di genere e mi accorgevo di essere come lui. E’ lì che ho preso coraggio”.
E cos’è cambiato da allora?
“Nel 2020 ho fatto coming out e ho scelto, in accordo con la mia psicologa, di intraprendere un percorso di transizione. Non è stato affatto semplice comunicare la mia decisione. Il primo commento di mia madre è stato: ‘perché ti vai a prostituire?’. Ciò dimostra quanta ignoranza ci sia in materia. Poi, fortunatamente, lei ha capito. Mi piacerebbe dire altrettanti di mio padre, ma purtroppo con lui ho interrotto i rapporti qualche anno fa“.
Cosa si può fare, secondo te, per rendere più visibile la comunità trans?
“E’ fondamentale conoscere. Cercare informazioni sulla transgenderità. Imparare a parlare con un linguaggio corretto, perché le parole hanno un peso. A partire dall’uso dei nomi e dei pronomi che la singola persona sente maggiormente adatti a sé. Circa due settimane fa un’amica, una ragazza della comunità trans di Perugia si è tolta la vita e la sua famiglia, che non ne ha mai accettato l’identità di genere, perfino di fronte alla morte, le si è rivolta al maschile tutto il tempo, usando il suo deadname“.
Proprio sabato pomeriggio si è tenuta un’iniziativa di Omphalos a Perugia…
“Sì, per l’occasione noi membri della comunità trans abbiamo preparato alcune domande che solitamente ci vengono rivolte, per fare un po’ di divulgazione. Tra le più idiote: ‘che genitali hai?’, come se dovessimo mai andare a letto insieme. La verità è che noi persone trans non chiediamo niente di più che essere trattati con dignità e rispetto come qualsiasi altro cittadino a questo mondo merita. Il nostro più grande desiderio è che gli altri si uniscano alle nostre battaglie. Per citarne qualcuna, i prezzi dei farmaci sono in costante aumento, senza considerare il fatto che la terapia ormonale non ha date di scadenza. La gente T fatica a trovare lavoro, io stesso, che ho una formazione da pasticcere, sono stato rifiutato da due locali, guarda caso, quando ho mostrato la carta d’identità“.
Adesso come stai?
“Sto meglio, grazie. Lavoro, continuo la terapia, ho il supporto dei miei amici. Ho trovato una mia pace interiore. Da ottobre scorso, tuttavia, sto aspettando che il Tribunale di Perugia emetta la sentenza per consentirmi di cambiare il nominativo sui documenti e accedere all’operazione chirurgica, per la quale serve l’autorizzazione del giudice”.