Dal municipio di Gualdo Tadino è stato esposto uno striscione con la scritta: “Libertà per Cecilia Sala. Libertà per le tante Cecilia, detenute in Iran e nel mondo”. Posizionato sulla facciata dell’edificio, il gesto è stato pensato per attirare l’attenzione pubblica su una battaglia per i diritti e la libertà.
Il primo passo di una piccola città
Un’iniziativa che non nasce per caso. Il comune è stato il primo in Italia a sposare una battaglia che richiama direttamente il discorso di fine anno del Presidente Mattarella. Il capo dello Stato aveva parlato di Cecilia Sala, sottolineando l’importanza di proteggere il pensiero critico e la libertà d’informazione, sotto attacco in ogni angolo del pianeta. Ed è proprio qui, in questo borgo dell’Umbria, che quelle parole hanno preso forma concreta.
La giornata di esposizione dello striscione ha visto il coinvolgimento di centinaia di studentesse e studenti. Un quadro che racconta di giovani pronti a prendere posizione, a dare volto e voce a un tema che non è distante ma urgente. Una partecipazione che è andata oltre il gesto simbolico, trasformandosi in una dichiarazione collettiva.
Le parole delle autorità
“Non lo toglieremo fino a quando Cecilia Sala non tornerà a casa”, ha detto Massimiliano Presciutti, sindaco di Gualdo Tadino. Ma il messaggio non è rivolto solo a lei. “Lo striscione resterà anche per le tante Cecilie, detenute ingiustamente nelle carceri iraniane e nel mondo”. Al suo fianco, Beppe Giulietti di Articolo 21 ha spinto l’appello oltre i confini nazionali, sottolineando l’importanza di restare uniti contro ogni forma di oppressione.
Articolo 21 è un’associazione italiana che si occupa di promuovere la libertà di informazione e di stampa, ispirandosi all’Articolo 21 della Costituzione Italiana, che sancisce il diritto alla libertà di espressione.
Cecilia Sala, le richieste di silenzio e il dibattito
Cecilia Sala, giornalista italiana di appena 29 anni, è prigioniera nel carcere di Evin, a Teheran, dal 19 dicembre 2024. Un nome, quello di Evin, che pesa come un macigno: celle gelide, isolamento forzato e luci accecanti, strumenti di tortura mascherati da ordinarietà. La Repubblica Islamica non ha neppure avuto il pudore di formalizzare le accuse contro di lei, lasciando che il vuoto riempia lo spazio delle spiegazioni ufficiali.
La famiglia di Sala ha invocato il silenzio stampa, sperando di non compromettere le fragili trattative diplomatiche. Una strategia che, seppur comprensibile, non convince tutti. Nazanin Zaghari-Ratcliffe, ex detenuta dello stesso carcere infernale, ha avvertito che il silenzio può trasformarsi in un’arma contro la vittima.
Evin non è solo una prigione, è un manifesto della repressione, una pagina nera che si scrive ogni giorno sui corpi e le menti di chi osa sfidare il regime. Cecilia Sala paga il prezzo di essere testimone, di voler raccontare l’indicibile. La sua detenzione non è un incidente di percorso, ma un messaggio chiaro: la libertà d’informazione è un lusso che l’Iran non concede. Chiunque tenti di esercitarla diventa un bersaglio.
L’ombra della geopolitica, però, è troppo lunga per essere ignorata. Il suo arresto è arrivato con un tempismo che fa riflettere. L’Italia trattiene un ingegnere iraniano accusato di traffico di tecnologie per droni, mentre Sala marcisce in una cella. Il parallelo è troppo preciso per sembrare casuale. Un gioco sporco, dove i diritti umani diventano merce di scambio, pedine su una scacchiera di interessi internazionali.
Il caso di Sala è un test per la nostra coerenza: possiamo permetterci di rimanere indifferenti solo perché non siamo fan delle sue scelte professionali? Se lo facciamo, accettiamo di vivere in un mondo dove il silenzio davanti all’ingiustizia diventa la norma, un mondo in cui il dissenso – il vero dissenso, anche quello che non ci piace – può essere punito con il carcere.