Sorpreso in stato di ubriachezza in un parcheggio pubblico alle porte del centro storico di Assisi, luogo di passaggio per pellegrini e turisti, era stato allontanato per 48 ore. Ma era tornato il giorno dopo, violando l’ordine. In considerazione della reiterazione e di una lunga serie di precedenti penali, la Questura di Perugia aveva disposto nei suoi confronti un divieto di accesso per 12 mesi a santuari, luoghi di culto e parcheggi pubblici. Il ricorso contro quella misura è stato respinto dal TAR dell’Umbria, che ha confermato la legittimità e proporzionalità dell’intervento.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per l’Umbria - Sezione Prima - ha pubblicato nei giorni scorsi la sentenza, confermando l’applicazione della norma che consente al Questore di vietare, per un massimo di 12 mesi, l’accesso a specifiche aree urbane a chi reiteri condotte lesive del decoro o della sicurezza pubblica. La misura è preventiva e motivata, adottata in presenza di comportamenti ritenuti pericolosi per l’ordine urbano.
La vicenda trae origine da un intervento di polizia avvenuto ad Assisi, in un parcheggio compreso tra le “aree sensibili” individuate dal Regolamento di Polizia Urbana del Comune. L’uomo, secondo quanto accertato in giudizio, era stato trovato in evidente stato di ubriachezza, sanzionato ai sensi dell’art. 688 c.p. e oggetto di un ordine di allontanamento per 48 ore. Il giorno successivo era stato nuovamente rinvenuto nello stesso luogo.
L’intervento della Questura si è fondato non solo sulla reiterazione della condotta, ma anche su numerosi pregiudizi penali e di polizia, elencati nella memoria dell’Avvocatura dello Stato: condanne per furto aggravato, rissa, lesioni personali, resistenza a pubblico ufficiale, oltre a violazioni delle norme sull’immigrazione e un precedente ordine di allontanamento dal centro storico di Assisi.
Difeso dall’avvocato Gianni Dionigi, il ricorrente ha impugnato il provvedimento davanti al TAR, contestando “l’insufficienza dell’istruttoria” e “l’assenza di motivazione concreta sulla pericolosità sociale”, sostenendo che il divieto sarebbe stato fondato “sulla sola esistenza di pregiudizi penali” senza un adeguato approfondimento individuale.
Nella sentenza, redatta dal Presidente e giudice estensore Pierfrancesco Ungari, il Collegio ha respinto ogni censura, ritenendo che il provvedimento della Questura fosse adeguatamente motivato, coerente con le norme in materia di prevenzione e proporzionato rispetto alla finalità perseguita.
“La condotta del ricorrente può essere ricondotta alla previsionedi legge, che configura un sistema graduale di intervento: prima si vietano specifiche condotte in aree sensibili, poi si consente l’allontanamento immediato dei trasgressori, e infine, in caso di reiterazione o inottemperanza, si può disporre il divieto di accesso per un massimo di 12 mesi con provvedimento del Questore”, scrive il giudice. Il comportamento ha interferito con la fruizione sicura di un’area urbana ad alta frequentazione, e la reiterazione ha giustificato il provvedimento interdittivo.
Secondo il TAR, l’analisi della pericolosità sociale non può limitarsi alla singola condotta ma deve estendersi alla “personalità complessiva del trasgressore”, come delineata dai precedenti giudiziari. “Il lungo elenco di condanne (…) connota una personalità probabilmente segnata da un profondo disagio personale e sociale, ma di certo refrattaria al rispetto delle regole del vivere civile”, si legge nel provvedimento.
Sulla proporzionalità della misura, il Collegio ha osservato che il divieto ha riguardato un ambito territoriale limitato, selezionato in base alla particolare delicatezza e funzione pubblica delle aree interessate (santuari, luoghi di culto e parcheggi esterni al centro storico).
La difesa del Ministero dell’Interno è stata curata dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Perugia, costituitasi in giudizio a sostegno della legittimità dell’atto impugnato.
Le spese di giudizio sono state compensate tra le parti, e il TAR ha ordinato l’anonimizzazione dei dati personali del ricorrente, ai sensi del Codice della Privacy e del GDPR.Una sentenza che ribadisce, in modo chiaro, la possibilità per le autorità di sicurezza di intervenire con misure preventive anche in assenza di nuovi reati, purché vi siano elementi oggettivi e un quadro coerente di pericolosità per l’ordine pubblico e la fruizione civile degli spazi urbani.