Il tema delle aree interne è tornato al centro del dibattito istituzionale con le pesanti parole dell’ex sindaco di Gubbio Filippo Mario Stirati, in riferimento al contenuto di un documento ministeriale che rischia di segnare una svolta negativa: il Piano Strategico Nazionale Aree Interne 2021–2027 (PSNAI).
Stirati ha espresso preoccupazione e sconcerto per la frase, contenuta a pagina 45, dell’Obiettivo 4, che recita: “Queste aree non possono porsi alcun obiettivo di inversione di tendenza, ma nemmeno essere abbandonate a sé stesse. Hanno bisogno di un piano mirato che le accompagni in un percorso di cronicizzato declino e invecchiamento”.
Una definizione che, per Stirati, equivale a una condanna a “cure palliative per un malato terminale”, e che rischia di trasformare il programma di rilancio in una strategia di gestione del declino.
Il progetto nazionale sulle aree interne nasce nel 2013 grazie all’allora Ministro Fabrizio Barca, con l’intento di lanciare politiche attive di contrasto allo spopolamento e alla marginalità. Parliamo di territori alpini e appenninici che, pur carenti dei servizi essenziali (sanità, istruzione, mobilità), conservano risorse ambientali, culturali e paesaggistiche straordinarie.
L’idea era chiara: trasformare difficoltà e ritardi in opportunità di sviluppo, puntando su turismo sostenibile, energie green, itinerari religiosi, qualità della vita, identità locale e creatività aggregata “…puntando, ad esempio, sul turismo slow, sulla energia green, sui percorsi e gli itinerari culturali e religiosi…”
Il peso delle aree interne è concreto. Toccano circa 4.000 comuni, rappresentano il 23% della popolazione italiana (oltre 13 milioni di persone) e coprono quasi il 60% del territorio nazionale. Sono borghi, comunità coese, foreste e acque, e custodiscono un’identità paesaggistica e culturale unica.
Ma il PSNAI, secondo Stirati, sembra voler decretare la resa: “…il governo italiano sembra volerci dire che non ci sono speranze di rilancio, ergo non si investirà più per trattenere i giovani o attrarne altri.”
Per Stirati la questione non è puramente economica, ma profondamente politica e costituzionale. L’articolo 3 dice che lo Stato deve rimuovere gli ostacoli economici e sociali che impediscono la piena partecipazione dei cittadini.
Eppure il piano rischia di tradire questo spirito, trattando le aree interne come “pazienti terminali” da tenere… solo in vita.
Da sindaco, Stirati è stato capofila dell’Area Interna Nord‑Est dell’Umbria, un progetto che ha unito 10 comuni in un sodalizio di progettazione e identità. Grazie a questo modello:
Sono arrivati investimenti infrastrutturali
Si è realizzata una programmazione omogenea, superando autarchia e campanilismi
Si è resistito ai contraccolpi negativi dell’abolizione delle comunità montane
Un’esperienza che ha dimostrato come, con politica vera e progettualità, si possa invertire la tendenza.
A conferma del valore delle aree interne, molti paesi europei – in particolare Francia e Scandinavia – investono con forza nelle zone rurali, considerandole centri di sviluppo sostenibile e non focolai di spopolamento.
Un modello virtuoso da imitare, secondo Stirati, che reputa il PSNAI una pericolosa inversione di rotta rispetto a questa visione.
Le aree interne non chiedono elemosine ma strumenti, risorse e opportunità. Queste comunità vogliono progetti, non assistenza passiva. Nessun “welfare del tramonto”, ma una strategia per costruire futuro e crescita.
“Non si tratta di gestire problemi considerati non risolvibili, ma viceversa occorre liberare risorse.”
Secondo Stirati, bisogna tornare a fare buona politica, con ascolto, valorizzazione, visione condivisa. Occorre smettere con logiche di rendimento amministrativo e tornare a una politica che creda, investa e speri.
“Se un Paese dichiara la fine di sé stesso, un borgo alla volta, rinuncia clamorosamente ad essere una Repubblica!”
La lettera di Stirati è un campanello d’allarme: se le aree interne vengono trattate come realtà destinate al declino, l’Italia perde una parte vitale della sua identità e del suo futuro.
Serve una reazione immediata: progetti, risorse, visione, investimenti, non “piani per addormentarle col tempo”. Se l’Umbria ha dimostrato cosa si può fare, ora tocca a Stato e Regioni non lasciarsi sfuggire l’occasione.
Perché il futuro di un borgo è il futuro dell’Italia. E nessun territorio meritano la condanna a una lenta fine.